“Questa umanità ha bisogno di pace”

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Il regista Michel Khleifi è già il più affermato regista palestinese quando nel 2002, insieme all’amico e collega israeliano Eyal Sivan, percorre con la macchina da presa una linea immaginaria dal sud al nord di Israele seguendo il tracciato dei confini della Risoluzione 181 dell’ONU del 1947. Dalla raccolta di questi incontri nasce Route 181- Frammenti di un viaggio in Palestina e Israele, un lungo documentario on the road che offre uno sguardo condiviso — palestinese e israeliano — su quelle terre dilaniate. Durante una presentazione del film nel 2004, Khleifi spiegava così l’approccio del progetto: “Innanzitutto umanizzare gli uni e gli altri, e, umanizzandoli, restituire il loro reale status umano, affinché possano diventare cittadini, entrambi uguali… Il mio diritto non è necessariamente opposto al tuo, né implica una negazione del tuo diritto. Il mio trauma non è necessariamente la negazione del tuo trauma.”
Nel contesto attuale sono parole allo stesso tempo più importanti e più lontane dalla realtà che mai - un progetto simile sembra oggi semplicemente impossibile. Khleifi, che raggiungiamo al telefono a Bruxelles alla vigilia del suo arrivo oggi a Bolzano, guarda alla realtà con una speranza temprata di realismo. “Certo che spero nella pace – chi non lo fa? Penso però che i rapporti di forza siano terribilmente a nostro sfavore. Se c’è al mondo un’ingiustizia assoluta che dura da un secolo, credo che sia la causa palestinese. Sono ormai quasi 120 anni che le cose vanno male per noi - dal 1905, con la dottrina dei movimenti sionisti che prevedeva la colonizzazione. Ora stanno negoziando su Gaza, mentre la colonizzazione continua in Cisgiordania. E le cose continueranno così, perché se si guarda la storia della Palestina, ogni volta che le potenze occidentali sono entrate in gioco è Israele a uscirne vincente.”
Per aiutare a trovare una via d’uscita servirà la solidarietà dei popoli, dice, indicando come esempio l’Italia “con le sue manifestazioni straordinarie”. Ma ripartire sarà difficile, con l’enorme quantità di problemi da affrontare. “Quante migliaia di corpi sono sotto le macerie? Quante migliaia sono i disabili a vita? Cosa facciamo con tutti i feriti gravi? E così via Come uscire dal trauma? Io conosco famiglie completamente decimate. Non si può, con la bacchetta magica, dimenticare tutto questo: ci sono persone terribilmente traumatizzate”.
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Chi è Michel Khleifi
Considerato il fondatore del cinema palestinese moderno, Michel Khleifi nasce a Nazareth nel 1950 e si trasferisce in Belgio nel 1970, dove studia regia teatrale e televisiva e lavora per la tv belga prima di passare alla regia cinematografica. Il suo film La mémoire fertile (1980), il primo film realizzato da un regista palestinese nei territori occupati, mostra da uno sguardo palestinese le fratture e le ferite causate dall’occupazione israeliana. Seguono Matrimonio in Galilea (1987), che ottiene il Premio internazionale della critica a Cannes e la Conchiglia d’Oro al Festival di San Sebastián, Cantico delle pietre, ambientato durante la prima Intifada, e L’ordre du jour. Nel 1994 realizza Il racconto dei tre gioielli, ambientato nella Striscia di Gaza. Ha studiato e insegnato alla scuola di cinema INSAS di Bruxelles e ha diretto programmi pionieristici di formazione cinematografica in Palestina. È in Italia in questi giorni per partecipare come giurato al festival itinerante del cinema palestinese NAZRA2025.
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"Un palestinese non può essere né pessimista né ottimista"
Intanto, il dialogo tra israeliani contrari al governo di Benjamin Netanyahu e la società civile palestinese resta minoritario: “Dal lato israeliano, si tratta di una piccolissima minoranza. E si può mostrare che, a livello storico, sono i palestinesi a fare continuamente concessioni e Israele che rifiuta. Basta guardare la mappa della Palestina dal 1948 a oggi. Non si può chiedere al più debole di continuare a fare concessioni: bisogna fare pressione sul più forte perché è davvero tempo di cambiare. Anche se immaginiamo che vogliono che spariscano i Palestinesi – cosa faranno nel resto del Medio Oriente?”
Ricordando gli oltre 60.000 morti di Gaza Khleifi chiede che venga fermata “la follia” del governo di Netanyahu, dove alcuni ministri “continuano a rivendicare diritti storici sulla Giordania, su una parte della Siria, su una parte del Libano” – è una follia che bisogna fermare perché abbiamo bisogno di pace – e non possiamo fare la pace senza che gli israeliani ci sostengano e si faccia insieme. Ma non si tratta di una partita di calcio. C'è un esercito che si considera il migliore al mondo davanti a pochissimi miliziani. Quelli che sono stati sterminati e hanno subito il genocidio erano civili.”
Ricorda che ci sono persone che hanno perso “tutto, tutto, tutto”: non gli è rimasto più nulla. "Questo non significa che non si debba avere la speranza in una pace giusta e nel rispetto del diritto internazionale. Il futuro sarà migliore - ma ci vorranno anni, decenni”. Il suo non è pessimismo, insiste, solo realismo. “Un palestinese non può essere né pessimista né ottimista. Perché quando è pessimista ha bisogno di essere ottimista. E quando è ottimista, vede la realtà e purtroppo diventa pessimista. Io non voglio essere ottimista in modo ingenuo e penso che noi siamo il futuro, loro, invece, appartengono già al passato. Ma provate a parlare con i coloni o con i politici israeliani. Non è facile - sono loro il problema. Noi vogliamo trovare delle soluzioni ma non appena lo facciamo loro cambiano e prendono un'altra strada”.
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“La mia anima è legata alla Palestina”
Khleifi è lontano dalla Palestina da circa tre anni – il distacco più lungo da quando si è trasferito in Europa nel 1970. Gli mancano il calore della patria, gli odori, i ricordi. “È questo che rende la nostra scrittura anche poetica. Ma conduce a una poesia che chiede semplicemente giustizia”. E la situazione a Gaza resta sempre presente. “La mia anima è legata alla Palestina. Le giuro che qui a Bruxelles non dormo”, dice, accennando alle storie di morte e distruzione che gli arrivano anche attraverso la famiglia che si trova a Nazareth, dove è nato nel 1950 e ha vissuto i primi 20 anni. Le radici sono una costante nel suo racconto, anche nella memoria delle restrizioni e dell’umiliazione quotidiana: “Sono cresciuto a Nazareth in un periodo nel quale non potevamo uscire dalla città senza autorizzazione militare. Ricordo il coprifuoco, i divieti. Mio padre non trovava lavoro, come la maggior parte delle persone attorno a noi Non è facile quando sei considerato come niente e soffri, umiliazioni quotidiane, ma in famiglia eravamo gioiosi, amavamo la cultura... Personalmente è stato l’immaginario a salvarmi. Ma non per tutti può essere così”.
Forse è questo immaginario che lo spinge a intraprendere gli studi di regia teatrale e televisiva a Bruxelles e ad essere considerato, nel giro di pochi anni, il padre del cinema palestinese - cinema che ora giudica non solo vivo ma anche estremamente attivo. “Sono davvero felice e soddisfatto del mio destino, nel senso che, quando ho iniziato, sono stato l’unico per quasi 15 anni”, ricorda. “Ho ricevuto molte lodi, ma anche tanti insulti. E ogni volta ripetevo: ‘Aspettate, il cinema, come l'arte e la cultura, è accumulazione’. Ci saranno generazioni dopo di me, o con me, spero. E, a poco a poco, si è costruita una cultura cinematografica. Oggi conosco appena il dieci per cento dei registi palestinesi – ce ne sono così tanti, e ci sono molte registe donne. C’est magnifique! E tra le generazioni future ci saranno ancora più donne che uomini”, dice con convinzione.
“Oggi mi vengono le lacrime agli occhi al solo pensiero delle ragazze e dei ragazzi che hanno filmato quello che succedeva a Gaza e che erano nel mirino dell'esercito israeliano: hanno saputo filmare e mostrare al mondo in modo diretto ciò che è successo. Nel 1994, quando ho girato La storia dei tre gioielli, una storia d'amore tra due bambini e l'unico film girato a Gaza, ho organizzato anche i primi corsi di formazione. Sono passati 30 anni. Oggi ci sono registi e produttori di Gaza. Complimenti - hanno capito che la modernità passa anche attraverso l’audiovisivo”.
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La creatività sprigionata dal neorealismo italiano
Parlare di cinema con Khleifi significa anche ascoltare una dichiarazione d’amore spontanea per il cinema italiano. “L’Italie, c’est notre mère!”, afferma con entusiasmo. “In Italia, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, il neorealismo è stato una forza creativa fantastica, che ha rivoluzionato il cinema e ha offerto soluzioni a molti di noi… Rivedo i film e rileggo le opere di quegli autori continuamente. Una volta dissi che, secondo me, il più grande regista del Terzo Mondo era (Pier Paolo) Pasolini - affermazione che mi causò non pochi problemi, ma è vero! Come il neorealismo, ha offerto soluzioni splendide alle società e ai registi poveri per inventare un cinema magnifico. La grande creatività nasce quando gli artisti utilizzano gli elementi che li circondano. I neorealisti hanno saputo trasformare l'Italia in una terra di creatività, non solo nel campo cinematografico, ma anche per quanto riguarda il pensiero, la poesia, la libertà e il rapporto tra l'individuo e la collettività. Hanno messo il dito su molte contraddizioni, soprattutto quelle dell'uomo italiano”.
Il regista continua con il racconto di una conversazione con Ettore Scola sui motivi del declino del cinema italiano (“Le famiglie intorno a Fellini, De Sica, non si resero conto che la tecnologia negli Stati Uniti stava avanzando a passi da gigante, senza una generazione di giovani che prendessero il comando. Questo era il suo punto di vista, che trovai coerente. Ma questo non toglie che Scola sia stato un grande regista”) per passare ai progetti nel cassetto che, come per ogni regista, sono ancora molti. All’interrogativo se un viaggio come quello di Route 181 sarebbe concepibile oggi dice che “Eyal Sivan e io siamo molto amici e siamo d’accordo sulla visione futura non solo di Israele/Palestina, ma del Medio Oriente. Pensiamo che questo mondo debba cambiare e che ci debba essere un’uguaglianza totale tra Nord e Sud e anche tra uomini e donne – spero che nella maggior parte del mondo continui la liberazione femminile per la piena parità tra uomini e donne – il futuro sono le donne.”
Alla fine, la possibilità di collaborazione con l’amico regista israeliano suona come una promessa. “Con Eyal Sivan ci telefoniamo spesso e diciamo che bisogna fare qualcosa. E lo faremo, ne sono certo”. E conclude: “A volte il terremoto ci travolge, e forse è necessario. Ma spesso , spero, regala qualcosa di meglio per il futuro. Cosa cambierà, non lo so. Sono per la pace, per il dialogo, per costruire insieme. Viviamo insieme, ma viviamo male. Che ci sia uno Stato, due Stati, tre Stati, quattro Stati, viviamo insieme. Questa umanità ha bisogno di pace.”
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