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Simon, Walter, Karl e il Nanga Parbat

Un libro racconta la “montagna nuda” dell’Himalaya che continua a chiamare. Ma sarà vero che la montagna chiama?
Nanga Parbat
Foto: Paolo Ghezzi

Ma sarà vero che la montagna chiama? Come chiama un padre, un fratello più grande, forse Dio, come può chiamare un dio, o una voce interiore, o una vocazione, appunto? Voce che si fa missione, voce che si fa professione, avventura, sottomissione perfino? Voce che annuncia l’ultima ora della vita, qualche volta, lassù tra il bianco del ghiaccio e il nero del vuoto.

Forse sì che è vero, che “È la montagna che chiama”. Titolo di un libro forte e drammatico, sull’avventura fatale di tre alpinisti regionali – Kehrer, Nones e Unterkircher, Karl che non tornò, e non aveva ancora compiuto 38 anni – nel luglio 2008. Sottotitolo “Undici giorni sul Nanga Parbat”. Gli autori, che si alternano capitolo dopo capitolo, sono Simon Kehrer (Brunico, 29 ottobre 1979) e Walter Nones, scomparso in Tibet due anni dopo quell’impresa. Ronzani l’editore, 240 pagine serrate e vibranti, 19 euro, nuova edizione (dopo la prima, nel 2009, da Mondadori) con la postfazione di Manuela Sparapani, moglie di Walter e madre dei suoi due figli. La collana, diretta da Matteo Righetto, si chiama VentoVeneto, curioso per un libro trentin-sudtirolese. Ma il vento soffia dove vuole. E il libro è curato come Montagna comanda.

 

 

Ma sarò vero che la montagna chiama?

A riascoltare Nick Drake, volato via a 26 anni dopo averci regalato tre dischi oscuri e luminosi, irripetibili irraggiungibili, volato via con troppe pillole sul comodino e il mai troppo Bach sul giradischi (Brandenburgische Konzerte), sì, certo, eccome che chiama.

Voice from the mountain, voice from the sea, voice in my neighbourhood, voice calling me… Da dove viene quella voce? Si chiedeva Nick. Da dove cala? Da quali altezze? Da quali abissi? Abissi altissimi, altezze abissali.

Quando, sul Nanga Parbat (montagna nuda, in urdu), 8.125 metri, nel Kashmir pakistano, Simon Kehrer e Walter Nones hanno perso Karl, Walter, che era più sotto, ha sentito solo una voce, quella di Simon che gridava “Karl”. A perdifiato, sperdutamente, inutilmente.

Scrive Nones: “Poi mi rimetto a salire, un metro dopo l’altro arrivo a un passo dalla spianata, sto per sollevarmi e tirare su le gambe, quando all’improvviso il silenzio viene spezzato bruscamente. Sopra di me, qualcuno sta gridando. È la voce di Simon che urla il nome di Karl, ancora e ancora. Mi blocco di colpo e tendo le orecchie. Nessuna risposta. Di nuovo il silenzio della montagna”.

 

E la voce (scritta) di Simon lo racconta così, quel grido: “Attento, c’è un crepaccio!” l’ho messo in guardia. “Ci sono finito dentro prima”. Karl mi ha fatto segno di sì, che l’aveva visto. Allora ha provato col piede a calpestare, a spingere via un po’ di neve per vedere quant’era larga la fenditura, era già a metà… In quel momento, senza un rumore, senza un grido, mi è sparito davanti agli occhi. Un attimo prima Karl era lì, un attimo dopo non c’era più. Al suo posto una voragine oscura larga tre metri, coperta da un ponte di neve, che gli si era aperta sotto i piedi. Non ha avuto scampo”.

Sono le 16 del 16 luglio 2008, a 6300 metri d’altezza. Irrecuperabile il corpo di Karl. La continuazione, la discesa con gli sci, è pericolosissima e Simon, che scende davanti, sopravvive per un soffio a due valanghe. Poi la risalita ad aggirare lo sperone verticale, tra seracchi e crepacci. All’amico Unterkircher dedicano la nuova via aperta sulla Rakhiot. Tragedia e impresa, insomma. E polemiche aspre al ritorno, come spesso accade quando la montagna chiama, e qualcuno sulla montagna ci rimane per sempre.

Il libro a due voci, a quattro mani, su quell’impresa a sei voci, a sei mani, rimasta mutilata per il volo di Unterkircher, è scritto bene, con passione controllata, con precisione, definizione, sobrietà.

È arricchito da una cronologia e da documentazione fotografica delle scalate al Chongra, al Nanga Parbat parete Rakhiot, da un glossario alpinistico.

Un libro a quattro mani per ricordare un’impresa a sei mani, adesso è diventato – nella nuova edizione, un’altra impresa a sei mani, perché Manuela Sparapani ha aggiunto tre pagine per raccontare il dopo. Dopo quei tre sul Nanga Parbat, ci fu il Cho Oyu 2010, obiettivo una nuova via sul versante sud-ovest, Nones con Giovanni Macaluso e Manuel Nocker. Altri tre, ma Walter stavolta è stato lui a rispondere al richiamo, ad andarsene senza un’ultima parola. Era il 3 ottobre, era da solo in quel momento, Walter. Non si sa che cosa gli sia accaduto. A Manuela è rimasto il rimpianto di non averlo rivisto, risentito, salutato per sempre.

 

Il numero tre torna, in questa storia, perché Manuela è rimasta con due figli maschi, Erik e Patrik, che assomigliano al padre. Un altro terzetto che non ha mai perso la gioia di vivere, pur dentro il dolore la perdita il lutto, e che ha continuato ad andare in montagna, ad arrampicare, a frequentare i luoghi alti che erano la casa naturale di Walter. Nei suoi post su Facebook, Manuela Sparapani Nones sa comunicare la bellezza dell’altezza, del respiro della montagna.

Nato a Cavalese il 5 novembre 1971, cresciuto a Sover in val di Cembra, Nones nel 2004 aveva raggiunto la vetta del K2. Nei ringraziamenti, per la prima edizione del libro, scriveva: “Ringrazio tutte le persone che continuano, come me, a credere in un alpinismo pulito e lontano dal business”. La faccia pulita, sorridente, nelle foto di montagna e di famiglia, Walter ce l’ha.

Del terzetto del 2008 Simon è l’unico rimasto qui, a Marebbe, al di qua del sipario che ci nasconde il dopo, l’altrove: fosse anche il nulla, ma chi sale in montagna forse sospetta sempre che non ci sia il nulla, dopo il vuoto dell’ultima caduta, dell’ultima chiamata. Cultore dello stile alpino senza portatori, sposato con Marta, due figli, ha scalato tutte le vette delle Dolomiti, quasi tutte in solitaria, una quarantina di quattromila nelle Alpi, tre seimila in Perù… “È molto triste che il mio primo ottomila sia stato segnato da una tragedia così dolorosa, altrimenti quello che sto vivendo sarebbe un momento di felicità perfetta”.

 

Manuela, nell’epilogo del libro, scrive, a proposito del 3 ottobre 2010: “Mentre ti accingi a salire, io sto dormendo al caldo in un’altra parte del mondo, mi sono svegliata con l’impressione che mi stessi chiamando. Chissà, forse era vero. Poi è arrivato il buio per te”. Ancora una chiamata, insomma, ancora una voce che non si sente eppure viaggia a velocità della luce. E se fosse luce, e non buio, ciò che ci aspetta oltre il bianco della neve? “Ogni volta che ti penso, vedo i tuoi occhi da bambino e il tuo sorriso contagioso e non posso fare a meno di sorridere anch’io. Eri un uomo felice”.

Voice from the mountain… Forse un giorno capiremo se sono voci, che ci hanno chiamato. O solo gli echi delle voci che ci parlavano dentro. Per noi cronisti di valle, resta il mistero di quegli intrepidi esploratori delle altezze, che sanno inghiottire la paura per un sogno, il vuoto del baratro per il pieno di un cielo fitto di nuvole, vette, presenze.