Museo delle opacità
Andrea Viliani è spesso ospite a Bolzano, dove è curatore ospite della Fondazione Antonio Dalle Nogare, che colleziona e si occupa di arte contemporanea.
La scorsa settimana lo abbiamo incontrato a Roma nel ‘suo’ Museo delle Civiltà, di cui è direttore dal gennaio 2022, per l'inaugurazione del nuovo allestimento Museo delle opacità che ‘svela’ letteralmente la storia coloniale italiana a cui il museo deve una parte delle sue immense collezioni. Il nuovo percorso museale propone una narrazione dialogica di un periodo storico controverso e finora volutamente poco indagato, attraverso l’esposizione di una prima selezione tra i 12.000 oggetti, referti acheologici, opere d’arte, manufatti, carte geografiche e documenti, depositati negli archivi dell’istituzione, e in parte restituiti ora al pubblico dopo cinquant’anni di oblio, da quando nel 1971 l’ex Museo Coloniale di Roma, venne chiuso.
salto.bz: Andrea Viliani qual è la storia del Museo delle Civiltà?
Andrea Viliani: Il Museo delle Civiltà ha una storia ovviamente più lunga, che affonda le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento, ma nasce come museo unitario e autonomo solo nel 2016. Il museo riunisce diversi musei preesistenti e raccoglie diverse collezioni, ovvero il Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini; il Museo delle arti e tradizioni popolari Lamberto Loria; il Museo dell’alto Medioevo Alessandra Vaccaro; il Museo d’arte orientale Giuseppe Tucci; le collezioni Ispra di geo-paleontologia e di lito-mineralogia, e infine l’ex Museo Coloniale di Roma (poi rinominato Museo Italo Africano Ilaria Alpi ndr). Le collezioni di quest’ultimo sono confluite nel Museo delle Civiltà nel 2017. La riunificazione delle varie sezioni in un unico grande museo antropologico si inserisce in un processo più ampio di progressiva e radicale revisione del museo che prevede anche la ricatalogazione dell’intero patrimonio, in parte non ancora esposto. Il Museo delle opacità che abbiamo appena inaugurato è un primo capitolo di questo percorso.
Che valore ha questo progetto?
Il progetto che abbiamo inaugurato ieri, intitolato Museo delle opacità, anche in assonanza con il nostro nome Museo delle civiltà, propone non solo una prima selezione di alcune opere e documenti delle collezioni provenienti dall’ex Museo Coloniale, in modo tale che esse possano iniziare ad essere visitate, ma propone anche di ripartire dalle collezioni di questo museo per confrontarsi sul tema della storia coloniale, quale uno dei capitoli fondanti da cui deriva l’identità nazionale italiana, assieme alla Magna Grecia, gli etruschi o l’arte barocca, per fare qualche esempio. Il fatto che il museo fosse chiuso dal 1971 significa che da più di cinquant'anni non c'è stata la possibilità per il pubblico di interagire con queste opere e questi documenti, e di studiarli. Quello che abbiamo fatto ieri è un'operazione di restituzione non soltanto di una selezione di oggetti e documenti, ma anche della possibilità di aprire un discorso intorno alla nostra storia coloniale. Quindi ha un valore anche sociale, oltre che storico-culturale.
Come avete scelto il nome Museo delle Opacità?
Abbiamo scelto questo titolo per due ragioni. Da una parte si può pensare che il termine ‘opacità’ sia affine al velo di amnesia steso sulla storia coloniale italiana, come se fosse qualcosa di dimenticato e dimenticabile. Dall'altro è invece un termine positivo, che ha qualcosa di assolutamente gioioso, fantasioso e poetico. Nel 1959 uno scrittore, Édouard Glissant, partecipa proprio qui a Roma, al Congresso degli scrittori e degli artisti neri all'Istituto italiano per l'Africa di Roma, che, guarda caso è l'ente che nel 1956, quindi tre anni prima di questo Congresso, aveva ereditato la gestione delle collezioni dell'ex museo coloniale di Roma e divenute ora parte delle collezioni del Museo delle Civiltà.
Nella poetica di questo autore non esiste nulla di trasparente, non esiste un'identità trasparente, non esiste un'azione trasparente. Nulla è trasparente, nemmeno l'aria, e questo ce l'ha insegnato nella pittura già Leonardo da Vinci, con lo sfumato.
Esistono solo situazioni e quindi identità opache che vivono nell'incontro, nel confronto, nella mediazione, nella negoziazione, nello scontro, nella riappacificazione, cioè vivono nel dinamismo. Ed è quello che abbiamo celebrato ieri. Esistono solo storie opache fatte di tanti elementi, il Museo delle opacità non mette solo in mostra il passato coloniale, ma anche la sua relazione con il presente, per poter tornare ad essere una storia che può essere raccontata e proiettata al futuro. Il passato può influenzare la percezione di chi siamo, di chi vogliamo essere e con chi vogliamo dialogare nel futuro.
Ci sono musei analoghi che si confrontano con la storia coloniale?
Senza spingersi all’estero, ci sono tante altre realtà in Italia, pubbliche e private, dedicate alla storia coloniale. Nella generazione dei quarantenni e cinquantenni a cui appartengo, si avverte sempre più il bisogno di tirare fuori queste storie, sentiamo la necessità di togliere quel velo di amnesia, per abbracciare la ricchezza delle opacità, per conoscere meglio e raccontare la pluralità di questa storia ai nostri figli e nipoti.
Nelle università, archivi storiografici, biblioteche, e centri di ricerca c’è oggi un dibattito fiorente su questo tema che coinvolge anche gli artisti.
Nel libro Cassandra a Mogadiscio, tra i finalisti del premio Strega, l’autrice italiana di origine somala Igiaba Scegu nel tessere l’intreccio di storie familiari tra Italia e Somalia racconta anche una visita al nostro museo. È importante aggiungere al racconto coloniale il punto di vista del paese colonizzato, che ha subito la violenza della colonizzazione, ignorato altrimenti e quasi non rappresentato nelle collezioni del museo, nate per esaltare l’azione coloniale e in funzione della propaganda.
Qual è il rapporto del museo con l’arte contemporanea?
L’arte contemporanea era comunque presente nella progettazione dei due edifici gemelli che ospitano il museo, l'attuale Palazzo delle Scienze e il Palazzo delle Tradizioni popolari, fin da quando furono commissionati per l’Esposizione Universale di Roma del 1942, che poi non ebbe mai luogo per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Nella monumentale vetrata policroma di Giulio Rosso oppure nel grande mosaico di Fortunato Depero.
Anche in questo nuovo allestimento le opere della collezione esposte dialogano con gli interventi di artisti contemporanei, selezionati attraverso un bando e alcune residenze artistiche nei depositi del museo. Grazie al PAC (piano per l’arte contemporanea del Ministero della cultura ndr) e la partecipazione al network Takingcare che riguarda le istituzioni museali etnografiche, le loro opere entrano stabilmente come acquisizioni nel museo. Gli interventi di artisti come Jermay Michael Gabriel e tanti altri, fino alle ricerche di Bianca Baldi e Malak Yakout arricchiscono la narrazione e ridefiniscono le collezioni storiche. Vorrei citare tra tutti il video di Theo Eshetu, che narra la complicata restituzione all’Etiopia da parte dello Stato italiano della Stele di Axum. Il video artistico è esposto qui nell’accostamento con opere di pittura etiope che l’artista ha individuato nei nostri depositi e a cui si era ispirato per il formato dell’opera.
A rendere contemporaneo un museo è infine lo stesso pubblico che visita le collezioni e aggiunge il proprio punto di vista. Per questo i musei, anche se dedicati al passato, sono sempre contemporanei.
Lei ha detto anche che il Museo delle Civiltà è un museo umanistico. In che senso?
Perché parla di noi come esseri umani. Non solo, nella parte dedicata alle arti e tradizioni popolari, racconta i nostri costumi, ed eleva a museo la vita degli umili, i ‘cenci e cocci’ di chi non aveva diritto a una storia. Anche nelle sue collezioni ‘scientifiche’ ci porta a riflettere sulla nostra evoluzione, sul nostro rapporto con le altre culture, con l’altro, diverso da noi, comprese le altre specie viventi e con l’ambiente. Il museo non è rivolto al passato, come sembra. Piuttosto, guardando alla storia nostra e del pianeta, avvalora l’importanza di ogni nostra azione di confronto con quello che siamo stati e quello che vogliamo essere. Ci chiede di prendere posizione nel presente. Ci ricorda che ci siamo già estinti una volta come Neanderthal, per diventare Sapiens, e che l’intelligenza artificiale, che ci fa così paura, potrebbe essere forse la prossima forma di esistenza nell’evoluzione umana, chissà.