Cultura | In Etiopia

Nel paese degli specchi

Da due anni il brissinese Alessandro Ruggera è direttore dell’Istituto di Cultura Italiana di Addis Abeba. Un lavoro di responsabilità, anche alla luce del passato coloniale che ha segnato le relazioni tra il nostro paese e quello africano.
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Foto: Salto.bz

Nel colloquio che ha fornito la base di questa intervista manca una domanda. Mancanza non dovuta a una banale dimenticanza. Chiedere infatti ad Alessandro Ruggera se la sua provenienza altoatesina l’ha aiutato a comprendere meglio la particolarità dell’Etiopia, e del lavoro che vi sta svolgendo, avrebbe prodotto uno schiacciamento sull’origine del suo sguardo – lo sguardo che egli è riuscito ad aprire su ciò che racconta – fin troppo banale.  Del resto, non esiste alcuna relazione che non si articoli a partire da una determinata origine, anche se poi si tratta di una relazione che vibra di un’intensità che la ricapitola, trascendendola.

Come si diventa direttori di un Istituto di Cultura Italiana all’estero
“All’inizio occorre svolgere un periodo di formazione al ministero degli Esteri. Un tirocinio di almeno diciotto mesi, che – nel mio caso – sono stati molto importanti per comprendere il funzionamento della macchina amministrativa e di tutti quegli aspetti, anche burocratici, indispensabili per poter poi svolgere il lavoro vero e proprio”. Riandando col pensiero a quel periodo, Ruggera ridisegna il percorso che l’ha portato in Etiopia, un approdo forse frutto del caso, ma di un caso comunque orientato da una curiosità di fondo: “L’Africa mi attraeva, ma in un primo momento l’avevo scartata per non sottoporre la mia famiglia a un cambiamento così radicale. Poi però sono uscite le liste dei paesi che periodicamente il ministero sottopone alla scelta dei futuri direttori degli Istituti di Cultura, il mio periodo di formazione era finito e non volevo restare ancora a Roma, una città troppo cara per il mio stipendio ministeriale. Così ho pensato che attendere un’ipotetica destinazione perfetta sarebbe stato sconveniente. E abbiamo accettato Addis Abeba”.

I primi giorni in una città senza centro
Chiedo a Ruggera del suo impatto con la nuova realtà, delle difficoltà che ha incontrato. “All’inizio si è trattato di difficoltà dovute soprattutto al clima. Sono arrivato lì nell’agosto del 2011, cioè nella stagione dei monsoni. Passare dal caldo torrido di Roma al clima freddo e fradicio di Addis Abeba è stato molto duro. Ma la difficoltà più grande si è rivelata la completa diversità dei punti di riferimento ai quali ero abituato”. Una città occidentale, organizzata secondo relazioni che si esprimono topograficamente in vie di crescente importanza, in corrispondenza del centro, e quindi piazze, punti di ritrovo chiaramente marcati, ci consente di evolvere abitudini che in un altro contesto risultano di colpo inutilizzabili. “Addis Abeba è una città cresciuta attorno a palazzi e residenze nobiliari, la breve occupazione italiana ha poi sedimentato una nuova struttura, a sua volta sbiadita dalla storia successiva. Per chi viene da fuori non è affatto facile orientarsi e i primi mesi, quando prima di prendere possesso del nostro nuovo alloggio risiedevo all’interno dell’Istituto, era persino complicato pensare di poter uscire a fare una passeggiata. Poi finalmente ho cominciato a capire come e soprattutto dove potevo muovermi”.

Un paese fatto di specchi
Sviluppare criteri di orientamento diversi da quelli abituali è un tema molto interessante, poiché ci fa scoprire dall’interno le dinamiche che comunemente esigiamo dagli “altri”, cioè da chi deve adattarsi al nostro modo di vita. Un modo di vita che peraltro tendiamo sempre a percepire come “normale” e dunque potenzialmente “assoluto”. Ma invertendo lo sguardo, provando quello che significa doversi adattare a un contesto sulle prime incomprensibile, dovremmo anche riuscire a comprendere meglio la relatività della nostra posizione, non solo le difficoltà altrui. In questo senso Ruggera coglie il tratto essenziale del suo “sentirsi a proprio agio” in una dimensione per definizione straniante: “Più che sentirmi a mio agio, ho imparato ad apprezzare il disagio. Del resto, ognuno ha un suo modo peculiare per entrare in sintonia con le situazioni nelle quali si trova a vivere. Il poter star bene dipende dalla particolare geografia psichica che alla fine creiamo noi stessi, è un processo che ricorda l’esperienza della flânerie, quando la biografia individuale s’intreccia a certi luoghi, i quali poi funzionano da specchi in cui è possibile riflettersi. Non riesco a spiegarlo meglio di così”.

La società etiope
Ma che tipo di società è quella etiope? È possibile tratteggiarla in modo schematico? “Si tratta di una società che risente profondamente delle diverse fasi storiche, anche violente, che l’hanno plasmata negli ultimi decenni. In passato l’impostazione era nobiliare, cioè rigidamente gerarchica, anche se non è possibile parlare di un sistema completamente chiuso, di caste. Non scordiamoci comunque che in Etiopia lo schiavismo ha continuato a sopravvivere fino agli anni Cinquanta. A questo si somma la frammentazione etnica, sancita anche dalla struttura federale che il nuovo governo di orientamento capitalistico ha introdotto negli ultimi venti anni”. E la presenza di stranieri? Esistono forme di meticciato? “Sì, questo è un fenomeno estremamente interessante, e ci potrebbe già portare a parlare dell’occupazione italiana. Comunque attualmente ad Addis Abeba vive una percentuale discretamente alta di cittadini occidentali, si tratta dunque di un centro cosmopolita. Anche a causa del mio lavoro, ad esempio, ho la possibilità di osservare forse meglio di altri questi aspetti”.

L’ex colonia italiana
Visto che abbiamo cominciato a girarci intono, è arrivato il momento di affrontare la questione del colonialismo italiano. La conquista dell’allora Abissinia nel quadro dell’infausta espansione imperialistica fascista è uno dei temi sui quali Ruggera ama maggiormente diffondersi. E come accade a chi s’interroga con cognizione di causa su argomenti altrimenti soggetti a facili generalizzazioni, il suo racconto si preoccupa di smontare i pregiudizi più scontati. “Già parlare di colonizzazione sarebbe, a rigore, improprio. Si può parlare di colonizzazione quando le istituzioni di un paese vengono riplasmate interamente dai colonizzatori. In Etiopia gli italiani sono rimasti dal 1936 al 1941, un periodo tutto sommato molto breve, anche se certamente significativo. Direi che si è trattato dunque di un’occupazione, peraltro contrastata dalla popolazione locale. Ad Addis Abeba, per esempio, le tracce visibili del passaggio italiano non sono rimaste poi molte. Altrove, soprattutto a livello architettonico, esse sono più evidenti. Al di là degli episodi più cruenti e giustamente stigmatizzati – mi riferisco per esempio all’attentato contro il generale Rodolfo Graziani, avvenuto il 19 febbraio del 1937, e la violentissima reazione che ne seguì – vorrei comunque anche sottolineare come gli italiani, ai quali fu concesso di rimanere anche dopo la fine della guerra, abbiano successivamente creato i presupposti per la creazione di una forma di meticciato incrementato soprattutto dall’afflusso da chi proveniva dall’Eritrea, quando questo territorio fu incluso nell’Etiopia. Adesso le relazioni sono buone, anche se l’Italia è pur sempre visto come il paese che fu attore dell’occupazione”.

La difficile elaborazione del passato
Insisto sul punto. Il colonialismo italiano è stato solo di recente sottoposto a un’indagine autocritica da parte di alcuni coraggiosi e valenti storici italiani. Chiedo se questi sforzi, in Etiopia, sono conosciuti ed eventualmente apprezzati. “È vero, attualmente in Italia disponiamo di numerose opere, non solo di storia, ma più in generale di carattere letterario, afferenti al cosiddetto filone post-colonialista. Qui è ovviamente opportuno citare Angelo Del Boca – che con i suoi volumi sull’Africa orientale ha contribuito notevolmente a divulgare presso un pubblico di non specialisti il tema del colonialismo e dei crimini commessi dall’Italia –, ma anche Calchi Novati e Alessandro Triulzi. Per quanto riguarda l’Etiopia, invece, bisogna dire che l’interesse per un tale periodo si è ormai cristallizzato in una versione ufficiale non ulteriormente problematizzata”. Ma questo significa che, sotto una simile versione, giacerebbero sepolti lati scomodi, paradossalmente contrari alla versione che anche la storiografia italiana sta faticosamente riportando alla luce? “Eh, le cose sono sempre più complesse di come sembrano e soprattutto lo diventano cambiando la prospettiva dalla quale si guardano. In Etiopia quello che manca è forse proprio una maggiore indagine sul significato del meticciato al quale alludevo in precedenza. Il rapporto con gli italiani fu insomma molto complesso, non completamente riducibile alla vulgata dell’oppressore privo di scrupoli e della popolazione locale indomitamente ribelle. Il fenomeno del mescolamento, che poi è quello che si è verificato e sempre si verifica anche in condizioni di estrema conflittualità, sfugge a una versione semplificata della storia. E soprattutto mette in crisi l’univocità di molti nostri paradigmi”.

Legami complicati
La conversazione stenta a finire, dilaga in altre direzioni. Ruggera mi parla del cibo locale, del quale ha imparato ad apprezzare le proprietà, e della sua attività all’Istituto, sottolineando in particolare l’interesse suscitato dalle iniziative di carattere musicale ed artistico. Ma anche del difficile rapporto con l’estrema povertà del luogo e delle persone, il loro dolore. E poi torna di nuovo sui suoi progetti a sfondo storico, tra i quali l’organizzazione di un congresso che porterà il titolo di “Complicated ties”, legami complicati. Un po’ come quelli che hanno stretto l’Italia e l’Etiopia, oggi certo non più tenaci e per questo anche taglienti come una volta, ma semmai da riannodare sotto l’egida di un tempo di pace e di maggiore comprensione reciproca. A fine agosto sarà di nuovo là, davanti a sé un intero anno, il terzo, per completare il periodo di soggiorno previsto e dare il suo prezioso contributo di “rilegatore” tra le diverse culture.

 

 

 

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e d Dom, 08/18/2013 - 19:21

Addis Abeba è una città senza centro, in questo testo il centro (il senso) è dappertutto. Isolo il passaggio per me più significativo, quello che in poche righe apre il Libro-Psiche-Mondo che preferisco:

“Più che sentirmi a mio agio, ho imparato ad apprezzare il disagio. Del resto, ognuno ha un suo modo peculiare per entrare in sintonia con le situazioni nelle quali si trova a vivere. Il poter star bene dipende dalla particolare geografia psichica che alla fine creiamo noi stessi, è un processo che ricorda l’esperienza della flânerie, quando la biografia individuale s’intreccia a certi luoghi, i quali poi funzionano da specchi in cui è possibile riflettersi. Non riesco a spiegarlo meglio di così”.

Per me è un bene che tu non riesca a spiegarti meglio, perché spiegandoti così mi fai venire in mente Robert Walser e la leggerezza ponderosa dei suoi passi; ma anche l'utilissima deriva teorizzata da Debord; o il Sudtirolo inesistente, senza rappresentazione del contrasto etnico, immaginabile soltanto in negativo, come polvere impalpabile di „biografie individuali“; oppure la cartografia psichica di un flâneur balcan(esco) che gironzola a Parigi: „Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi“. Insomma, caro Alessandro, spiegandoti così mi fai tornare in mente un sacco cose belle. E per questo ti tingrazio.

Dom, 08/18/2013 - 19:21 Collegamento permanente