Società | Intervista

La seconda vita dei tessuti

Intervista a Silvia Atzori, fondatrice di Atotus, impresa sostenibile che recupera i vecchi filati e dà loro nuove forme: "Un'espressione concreta di economia circolare".
Silvia Atzori, Atotus
Foto: Silvia Atzori

Quando si parla d’inquinamento il pensiero corre immediatamente all’industria pesante, ma poco si conosce riguardo all’impatto ambientale che il settore della moda provoca ogni anno. Eppure  la produzione di capi d’abbigliamento consuma moltissime risorse e rilascia nell’ambiente ingenti quantità di sostanze dannose durante l’intera filiera, che per la maggior parte coinvolge paesi nei quali le norme ambientali e lavorative sono scarsamente o per nulla applicate. Da qualche tempo alcuni brand stanno aprendo la strada ad una diversa idea di moda, ma spesso questa svolta coinvolge grandi marchi, dal costo difficilmente accessibile. Ci sono poi però realtà locali virtuose, progetti nati per avvicinare una clientela più ampia ad un diverso modo di produrre vestiario: come il progetto Atotus, nato dalla brillante intuizione di Silvia Atzori, sarda di nascita e trentina d’adozione, che dopo gli studi di economia ha deciso di applicare la sua professionalità ad un interessante percorso di rigenerazione dei filati che è stato presentato di recente anche con uno stand alla Fiera di Bolzano per Biolife.

Salto.bz: Atzori, può spiegarci come funziona il progetto Atotus? 

Silvia Atzori: Atotus si occupa della rigenerazione delle fibre, con una filiera che coinvolge l’intero ciclo, dal cliente al tessitore. Il singolo infatti può recarsi in negozio e portare il suo capo che verrà poi inviato a dei filatori per produrre nuova fibra. Questa fibra sarà poi reimessa nel circuito, che comprende tessitori e produttori. Il nostro negozio (a Vallelaghi, TN) quindi non è una semplice rivendita ma diventa il connettore principale di tutti gli attori. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di rinominare i nostri clienti e chiamarli Tipper, dall’acronimo Together is possible, per sottolineare quanto ognuno sia essenziale, un'espressione concreta di economia circolare.


Dietro ad Atotus non c’è solo la passione per la sostenibilità e per la moda, ma anche analisi di fattibilità economica, modelli di business, conoscenza del modo di fare impresa e del territorio


Parlando proprio di economia, quanto è stato importante il percorso accademico nell’ideazione di Atotus? 

Gli studi di economia sono stati fondamentali per la realizzazione di questo progetto. Dietro ad Atotus non c’è solo la passione per la sostenibilità e per la moda, ma anche analisi di fattibilità economica, modelli di business, conoscenza del modo di fare impresa e del territorio. Non è un’idea improvvisata, ma frutto di competenza, dedizione e lavoro, nata esclusivamente con le nostre forze, fatto che ci rende orgogliosi ma anche preoccupati, perché dimostra ancora una volta quanto sia faticoso essere una piccola impresa in Italia. 

Non avete riscontrato una vicinanza delle istituzioni durante il percorso?

Purtroppo non abbiamo ricevuto fondi, nonostante si tratti non solo di un business sostenibile ma anche di un’impresa femminile. Il nostro è un progetto ambizioso, che punta ad essere presente anche in altre regioni italiane, per esportare questo circolo virtuoso e coinvolgere attori in tutta Italia e ci rammarica che i proclami non si traducano in vera attenzione alle piccole realtà creative. C’è una progettualità vivace, che ha bisogno delle istituzioni per tradursi in attività e non rimanere lettera morta, soprattutto adesso, per rendere finalmente questa crisi un’opportunità di cambiamento.

Avete riscontrato quindi una partecipazione attiva da parte delle imprese? 

Dopo una scrupolosa valutazione del mercato, ci siamo proposti e abbiamo trovato molto entusiasmo, anche grazie alla chiarezza della nostra idea. Siamo stati attenti ad ogni dettaglio e abbiamo analizzato diversi aspetti, come, per esempio, quello delle certificazioni. In questo scenario c’è stata una grande partecipazione, che ci fa ben sperare nella possibilità di condividere in futuro la nostra esperienza. 

Dopo questa crisi ci si sta svegliando e ci si sta aprendo ad una nuova consapevolezza, ma c’è ancora molto lavoro da fare

C’è una maggiore attenzione a questo tipo di progetti? 

Dopo questa crisi ci si sta svegliando e ci si sta aprendo ad una nuova consapevolezza, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Ci sono diverse imprese che lavorano nel settore del recupero delle fibre, soprattutto per quanto riguarda lana e cachemire, ma la conoscenza di queste opzioni è poco diffusa. Bisogna spiegare come l’acquisto di un capo in fibra naturale sia un investimento per il futuro, fibre come lana e cotone infatti sono sempre riciclabili, mentre capi che contengono più di due fibre  devono essere gettati, soprattutto se nell’insieme ci sono fibre sintetiche. È importante diffondere queste informazioni, per aumentare l’attenzione su quello che compriamo. 

I clienti, e le generazioni più giovani in particolare, stanno diventando più consapevoli?

Sicuramente i più giovani sono più reattivi, anche grazie alla diffusione del vintage, ma la situazione è più complessa perché il potere di spesa è fondamentale e spesso studenti del liceo o universitari hanno una minore possibilità di comprare capi sostenibili. Ad occuparsi di moda ecocompatibile infatti sono per lo più case di moda che hanno un costo alto, mentre noi cerchiamo di avere prezzi accessibili. Inoltre abbiamo sviluppato anche l’e-commerce che ci permette di raggiungere diversi territori, il che risulta molto utile anche per comprendere le tendenze regionali. Se in alcune regioni infatti, c’è un forte adesione alla nostra iniziativa, questo può essere un buon indicatore sulla possibilità di sviluppare ulteriormente il progetto, aprendo, per esempio, un negozio in quel territorio. 

È per questo che avete creato una vostra moneta, i Tips? Per essere più vicino alle esigenze di tutte e tutti?

 Sì ed è legata al capo che il cliente, o meglio Tipper, porta nel nostro negozio. Noi valutiamo la fibra e rilasciamo un buono, che tiene conto dell’effettivo valore apportato. Non si tratta quindi di un buono forfettario e soprattutto non ha scadenza: molti negozi infatti dopo una valutazione del tutto parziale rilasciano un buono, che deve essere speso entro un determinato periodo di tempo e che spinge le persone a comprare. Noi, al contrario, leghiamo le nostre Tips alla volontà di acquistare del Tipper e lo rendiamo partecipe del percorso di produzione, perché può seguire la filiera del capo portato in negozio.

Possiamo dire che questo nuovo modello, più attento all’ambiente e più vicino al cliente,  tracci la strada per il business del futuro? 

Si tratta sicuramente di un modello che porta ricchezza nel paese in cui si vive. Noi, per esempio, abbiamo deciso di investire nel made in Italy, mantenendo alta l’attenzione non solo sulla sostenibilità ma anche sul rispetto del lavoro e dei salari adeguati. I capi a basso costo del fast fashion spesso nascondono sfruttamento in paesi in cui le norme lavoristiche non sono applicate, mentre il ciclo produttivo che noi abbiamo in mente permette di aumentare il livello di benessere di tutti gli attori e di conseguenza della realtà in cui siamo. Quando scegliamo un prodotto dobbiamo considerare il suo percorso completo e una maggiore consapevolezza sugli acquisti può cambiare in meglio l’intero tessuto produttivo.