Cultura | Confini

Fotografie che abbattono i confini

Attraverso le sue opere Valentina Tamborra racconta con sguardo attendo e delicato le vite di chi vive nei territori confine, in uno spazio sospeso e spesso carico di violenza.
valentina tamborra
Foto: Incontri al confine. Valentina Tamborra
  • “Chi viene dal confine non è mai abbastanza, non appartiene né a un luogo né all’altro”. Valentina Tamborra, fotografa e giornalista, cresciuta in un piccolo paese di montagna al confine tra Italia e Slovenia, questo spaesamento lo conosce bene, perché lo ha vissuto direttamente sulla sua pelle. A casa sentiva parlare italiano e sloveno, ma la lingua della madre non l’ha mai potuta imparare. Questa assenza ha frammentato il suo essere, ma ha alimentato, al contempo, la sua voglia di comprendere i confini: Iraq, Burkina Faso, Palestina, Benin sono alcuni dei Paesi che oggi le appartengono e a cui Tamborra sente di appartenere a sua volta. Luoghi che la fotoreporter ha raccontato con estrema cura e uno sguardo profondo e delicato, traducendo in parole e immagini le storie delle persone che vivono quei luoghi sospesi e violenti. 

  • Scoprire la bellezza, stando sempre un passo indietro

    “Dopo aver raccontato tanto dolore, la ricerca di bellezza mi ha portato nell’Artico”, ha affermato Tamborra in occasione della presentazione delle opere “I nascosti” e “Incontri al confine”, che ha avuto luogo a metà dicembre alla giardineria Schullian di Bolzano. Prima le Isole Svalbard, un luogo utopico, “visto che si tratta dell’unico posto al mondo dove è possibile risiedere senza visto”, poi le Lofoten. In occasione di questi viaggi incontra Ørjan Marakatt Bertelsen, fotografo di guerra, con cui scopre di condividere motivazioni e traiettorie. “Ørjan mi ha invitato nel Finnmark per visitare i suoi luoghi e conoscere meglio la storia dei Sami, di cui sapevo ancora poco”. È l’inizio di un’avventura lunga cinque anni – quattro di viaggi e uno di produzione –, di profonde amicizie e di una storia legata alle tradizioni. Ma è anche la scoperta di una lunga scia di soprusi e disconoscimento dell’identità di un intero popolo. Sopravvissuti al feroce processo di “norvegizzazione” e cristianizzazione, che ha cancellato lingua, tradizioni e cultura di un’intera generazione, sono circa 80 mila i Sami che oggi abitano il Sápmi, territorio che si estende tra Norvegia, Svezia, Finlandia e penisola di Kola (Russia). “Comunemente vengono identificati come lapponi, che però è un appellativo dispregiativo”, ha precisato Tamborra. In lingua svedese, infatti, il termine “lapp” significa “pezza” o “pezzente” e ha una forte carica denigratoria. 

  • A dicembre la fotoreporter Valentina Tamborra ha presentato "I nascosti" e "Incontri al confine" nella suggestiva cornice della giardineria Schullian di Bolzano. Foto: Gärtnerei Schullian
  • Valentina Tamborra ha scoperto e raccontato i Sami entrando in punta di piedi nel loro mondo, che le si è svelato quindi lentamente, mostrandole la sua eccezionalità e tutto il dolore che l’ha percorso. “All’inizio ho faticato, alcuni mi guardavano con un po’ di diffidenza, perché sono comunque una chudit (uomo bianco usurpatore in lingua Sami)”, ricorda. Con il tempo e la costante presenza Valentina Tamborra ha conquistato la loro fiducia e ha potuto vivere e documentare momenti fondamentali della cultura sami: dai riti sciamanici alla marchiatura delle renne, passando per eventi di incontro tra le comunità. Tamborra ha potuto partecipare, per esempio, al rito del Nyssetogge, che si compie la notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. “In questa occasione i Sami indossano costumi e maschere di demoni, per poi fare una lunga processione che culmina in una danza attorno al fuoco sacro, dove le maschere vengono bruciate in segno di buon auspicio”, spiega. In primavera, invece, ha luogo il Sami Easter Festival, che cade nel periodo dell’anno in cui la transumanza si ferma e i Sami celebrano battesimi, matrimoni e feste. 

     

    Il popolo Sami è profondamente legato alla natura e ai suoi ritmi.

     

    La fotografa italiana ha avuto modo di conoscere “un popolo profondamente legato alla natura e ai suoi ritmi”. Uno degli elementi fondamentali della cultura sami sono le renne. Le renne, infatti, vivono in natura e sono gli uomini ad adattarsi al loro ritmo, seguendole attraverso un sistema GPS. Tamborra ha partecipato anche alla marchiatura di questi animali, una pratica che prevede l’incisione del simbolo della famiglia che ne detiene la proprietà sulle orecchie di ciascun capo. I marchi vengono successivamente registrati su una app, così che si possano risolvere rapidamente eventuali casi di contenzioso. Questo esempio mostra il perfetto connubio tra tradizione e innovazione e smonta il luogo comune che vorrebbe i Sami come un popolo ancorato al passato. Un pregiudizio richiamato più che altro per screditare le lotte del popolo nativo contro il cambiamento climatico e lo sfruttamento delle risorse a scapito del loro territorio. A questo tema è dedicato un prezioso lavoro del Centro Pulitzer ed è su questo aspetto che ha posto l’accento anche Valentina Tamborra. “Il popolo Sami non è contro la tecnologia o le energie rinnovabili, chiedono solo che la green economy tenga conto dei loro diritti”. Basterebbe, per esempio, evitare di erigere pale eoliche sul terreno della transumanza, costringendo le renne a cambiare rotte e morire di fame. Un’ulteriore minaccia è rappresentata dall’innalzamento delle temperature. Nella stagione invernale le piogge sono sempre più frequenti e lo spesso strato di ghiaccio che si forma sotto la neve impedisce alle renne di scavare nel terreno per brucare. La stessa Tamborra nelle sue ultime visite in Finnmark ha visto alcuni amici Sami portare da mangiare alle renne. “La scarsa considerazione delle istanze del popolo Sami è eredità di un passato di soprusi e violenza”, ha evidenziato Tamborra, ripercorrendo alcune tragiche tappe del processo di norvegizzazione e cristianizzazione forzata a cui la popolazione nativa fu sottoposta. “Sui Sami furono condotti esperimenti, vennero usati come cavie per dimostrarne l’inferiorità, i loro nomi vennero cambiati, si crearono scuole in cui si parlava solo norvegese, fu vietato loro di indossare il gátki(abito tipico dei Sami), ci furono casi in cui ad alcuni di loro vennero tagliate le orecchie come avviene in occasione della marchiatura delle renne.” Prassi di questo genere oggi non esistono più, ma la scia di dolore è ancora presente nella società. “Le persecuzioni del passato porta ancora oggi molti Sami a nascondere la loro fede religiosa, lo sciamanesimo”, ha precisato la fotoreporter. Durante il periodo di cristianizzazione, gli sciamani venivano messi al rogo e la stessa sorte toccava al tamburo, oggetto sacro che secondo la tradizione contiene l’anima dello sciamano. “Se ne salvarono pochissimi esemplari”, ha raccontato Tamborra, “uno è il tamburo di Poala Ándde, che il regno di Danimarca restituì al Sami Museum di Karasjok solo nel 2022, giusto poco prima della Biennale di Venezia che avrebbe dedicato uno spazio alla cultura sami”. Anche questa storia ha un lieto fine parziale, però, poiché il tamburo purtroppo è stato sfregiato con il “timbro” del re e della regina di Norvegia. Lo sradicamento dalla propria appartenenza pesa anche sulle giovani generazioni Sami: sono diffusi i casi di alcolismo ed è molto alto il tasso di suicidi, almeno uno per famiglia, che – ha precisato Tamborra – “non sono certo dovuti alla ‛solitudine artica’, ma all’assenza di prospettive e al vuoto che provano se non possono vivere come sanno”. 

  • Valentina Tamborra sul palco insieme a Mohsen Farad, moderatore della presentazione bolzanina. Foto: Alessio Giordano/SALTO
  • I confini, un luogo di incontro

    Riportare alla luce la Storia “nascosta” dei Sami attraverso foto, testi e parole, per Valentina Tamborra è stato un modo per ridare voce a chi per troppo tempo è stato silenziato. E la voce di chi è costretto al margine – della società e della Storia – è una delle traiettorie che anima il suo ultimo libro, “Incontri al confine”. Rispetto a “I nascosti”, però, in quest’opera il rapporto tra foto e testi è ribaltato: sono questi ultimi a costituire l’ossatura del libro, mentre la galleria fotografica posta in chiusura non è la descrizione visuale dei testi, ma piuttosto un’evocazione di mondi a cui anche i racconti appartengono.

    I testi del libro costituiscono una raccolta degli incontri che la fotoreporter non aveva mai raccontato. “‛Incontri al confine’ è una collezione di foto che non ho mai scattato, frammenti di vite altrui finora gelosamente custoditi”. Rileggendo i suoi diari di viaggio, Tamborra ha ritrovato “tante persone che mi hanno accompagnato in questi anni e che considero i miei piccoli eroi, persone ordinarie che fanno cose straordinarie e che meritavano di venire alla luce”. E sono proprio loro i protagonisti degli incontri al confine della fotoreporter. Pagina dopo pagina, si susseguono istantanee di vite poetiche e delicate. Come quella di George, che guida la fotoreporter attraverso il campo profughi Aida di Betlemme passando sotto un’enorme chiave in ferro battuto, ricordo della chiave della propria abitazione per chi oggi una casa non ce l’ha più perché demolita o sotto occupazione israeliana; o quella di Ambra, bambina marchigiana di sette anni e mezzo “che a quel mezzo tiene davvero tanto”, con cui Tamborra cammina per le strade di un paese distrutto dal terremoto fino ad arrivare lì dove sorgeva la casa della bambina e dove ora non c’è più niente. 

     

    “‛Incontri al confine’ è una collezione di foto che non ho mai scattato.”

     

    C’è anche un po’ di Bolzano negli incontri al confine di Valentina Tamborra. In Nomi da ricordare, l’autrice descrive il Passaggio della Memoria, che sorge nel quartiere Don Bosco, “dove una volta si trovava il campo di transito istituito dai nazisti dopo l’armistizio del 1943” e, subito dopo, ci mostra un esempio di architettura ostile della città: davanti a un supermercato, sopra le grate di aerazione da cui esce aria calda, è ancora presenta la barriera in ferro “anti-clochard”, che impedisce a chi si trova suo malgrado in strada di sostarvi sopra nelle fredde notti di inverno. Questi sono solo alcuni degli scatti letterari carichi di dolore, che Tamborra restituisce con straordinaria cura ed empatia. “Per raccontare – con le parole o le immagini – bisogna innanzitutto porsi in ascolto. Per questo faccio sempre un passo indietro: la fotografia e la narrativa sono l’ultimo atto di un rapporto di fiducia”. La stessa fiducia la fotografa l’ha instaurata anche con i protagonisti del progetto “Con la nostra voce – Storie di libertà”, dedicato ai siblings, i fratelli e le sorelle dei bambini che soffrono di una patologia oncologica o di una malattia genetica rara e che “rischiano di avere poco spazio e voce in contesti dove la malattia è, inevitabilmente, una presenza ingombrante, fonte di preoccupazione e grande sofferenza”. A questi bambini spesso “nascosti” Tamborra ha dato spazio, mettendoli al centro della narrazione. “All’interno momenti di incontro e dialogo, i bambini e le bambine hanno costruito delle maschere che rappresentasse concretamente le loro paure, per poi liberarsene e raccontare ad alta voce la propria paura, in un atto di liberazione”, ha spiegato la fotoreporter. 

    Chi è testimone del dolore altrui e lo racconta – in forme e contesti diversi –, inevitabilmente va incontro a dei cambiamenti e, al contempo, può vedere la conferma di alcune certezze. Valentina Tamborra non fa eccezione. “Io credo sempre nella bellezza e nell’amore, ma faccio più fatica perché in questi anni ho perso un po’ di leggerezza – ha detto –, ma ci sono alcuni fari che continuano a illuminare il mio cammino: per esempio, non ho mai smesso di credere nelle tante piccole buone azioni degli individui”. Ed è questa speranza che Valentina Tamborra trasmette anche ai lettori e alle lettrici dei suoi libri e al pubblico che assiste alle sue mostre o presentazioni. Una speranza che, unita al suo straordinario lavoro di cura, abbatte i confini e lenisce, almeno in parte, le ferite del mondo in cui viviamo.