Film | Recensione

Fantino resurrection

El jockey, l’anarchica e allegorica ricerca di identità a tema equestre secondo Luis Ortega. Un film che ce l’aveva quasi fatta.
El jockey
Foto: Screenshot
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    Si prende la scena, tra le striminzite uscite in sala della stagione estiva, El jockey, il lungometraggio di Luis Ortega che mescola farsa e gangster movie con lampi di surrealismo e realismo magico. Il film, presentato in concorso all’81esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, è l’ottava opera del regista argentino.

    Cos’è 

    El Jockey racconta la storia di Remo Manfredini (l’ipnotico Nahuel Pérez Biscayart), un celebre fantino i cui giorni di gloria sono ormai svaniti per via del suo abuso di sostanze e di un comportamento autodistruttivo che mette a repentaglio anche la relazione con la collega Abril (Úrsula Corberó) incinta di suo figlio, innamorata di Ana (Mariana Di Girolamo), un’altra fantina.

    In sella a un nuovo cavallo importato dal Giappone, durante una corsa cruciale che lo libererà dai debiti che ha con il boss mafioso Sirena (Daniel Giménez Cacho), il fantino ha un grave incidente. Quando si risveglia dal coma lascia l’ospedale e, dopo aver rubato la pelliccia e la borsetta di un’altra paziente, si mette a vagare per le strade di Buenos Aires incerto su chi sia o fosse.

    Mentre gli scagnozzi di Sirena si mettono sulle sue tracce il protagonista tenta di ritrovare se stesso e la propria autentica identità e di iniziare una nuova vita. Remo diventa Dolores e la fluidità di genere viene rappresentata con naturalezza, come una delle tante possibilità nella continua ricerca del sé. Anche Abril, come Remo, intraprende un proprio percorso di scoperta personale.

  • (c) Rotten Tomatoes Indie

  • Com’è

    La potenza visiva dei primi 30 minuti del film di Ortega rendono la visione un piacere assoluto. Man mano che procede verso il traguardo, però, El Jockey si affievolisce, comincia a vacillare sotto il peso della propria estetica sontuosa finché gli finisce la birra.

    Il film, su cui si allungano evidenti le ombre di Almodóvar e del mondo assurdo impassibile di Kaurismäki (il direttore della fotografia di El jockey, Timo Salminen, è un collaboratore abituale del maestro finlandese) con un tocco di atmosfera lynchiana, è divertente ma sfuggente, evita di prendere posizioni nette o fare dichiarazioni esplicite. Probabilmente El Jockey vuole essere un’allegoria sulla fluidità dell’identità di genere o sulla fragilità della mascolinità contemporanea. La sceneggiatura spesso sacrifica l’introspezione psicologica dei personaggi in favore della metafora appesantendo così il racconto la cui trama si rivela troppo esile.

    Tra travestimenti, balletti estemporanei, piccole stranezze, gag stravaganti e visioni metafisiche uniti a un’estetica rétro particolarmente ammiccante, El Jockey è un film che si rifiuta di essere incasellato in una forma precisa, prova gusto a cambiare tono e forma e ha una spiccata passione per la mancanza di limiti. E, anche se il risultato non rispecchia le potenzialità del film, concedetevela questa cavalcata bizzarra e tortuosa, non c’è da pentirsi.