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Non cercarlo su Google

Cosa succede quando cerchiamo informazioni sanitarie sui siti internet. E no, la risposta non è confortante.

Chirurgica, dermatologica, ortopedica, di qualsiasi tipo di consulenza medica abbiate bisogno, dottor Internet è a vostra disposizione, riceve 7 giorni su 7, 24 ore su 24, esentasse e con servizio a domicilio. Anche chi non si definisce esattamente un cybercondriaco, almeno una volta nella vita, da quando il web è diventato il miglior amico dell’uomo, ha rovistato nella rete alla ricerca di informazioni veloci e possibilmente rassicuranti su un determinato sintomo, una volta per un mal di pancia ricorrente, un’altra per un foruncolo di colore ambiguo sotto l’ascella, o ancora per una macchia sospetta sul gomito.

Queste pagine, che consultiamo augurandoci di restare in un confortante anonimato, vengono costantemente tracciate. Nell’aprile del 2014 Tim Libert, un ricercatore dell’Università della Pennsylvania, ha elaborato un software, chiamato webXray, che ha analizzato le 50 ricerche su internet più frequenti su 2mila malattie comuni (il risultato supera le 80mila pagine in totale). Da qui la scoperta, pubblicata sulla rivista dell’Associaton for Computing Machinery: il 91% delle pagine cliccate venivano girate anche ad aziende esterne al sito all’insaputa dell’utente e circa il 70% delle volte i dati trasmessi contenevano informazioni sulle malattie, i trattamenti e le specifiche condizioni.

Tutto bene (si fa per dire) finché si tratta di andare a cercare i sintomi dell’influenza o le cause dell’intolleranza alimentare, ma quando sono malattie imbarazzanti come l’herpes genitale o l’ernia ombelicale ad essere sbandierate in lungo e in largo per la rete, è tutta un’altra storia (o no?). Come se non sapessimo già, direbbe qualcuno, di essere regolarmente sotto stretta osservazione telematica a suon di cookies, le “microspie” che vegetano beate nei nostri pc. Eppure no, non lo sappiamo con certezza perché dati precisi in questo senso non ce ne sono ancora.

Il guaio è che questo traffico di dati – come ha scoperto webXray e come riportato da Motherboard – non compare solo sui siti dichiaratamente commerciali per tampinarci con le offerte pubblicitarie, ma anche su quelli che con il commercio di questi dati non dovrebbero avere niente a che fare, come i siti governativi. La colpa è per lo più di quegli apparentemente innocui pulsanti per la condivisione sui social o a programmi come Google Analytics (che vengono messi a disposizione gratis, ci siamo mai chiesti perché?) che i siti, a cui affidiamo le nostre ricerche, utilizzano e che di fatto servono a divulgare informazioni private ai terzi interessati – le cosiddette third party requests – attraverso quella che è una sorta di seconda rete a noi ignota dove avvengono inquietanti manovre.

Ci sono infatti delle aziende che vendono i dati su migliaia di siti sanitari al fine di stabilire la nostra situazione bancaria e, attraverso il reperimento dei nostri dati, è in grado di collegare informazioni sul nostro credito a quelle sulla nostra salute fino ad arrivare a determinare quanto paghiamo, ad esempio, per le nostre cure sanitarie. E allora, se una persona cerca diverse volte sul web la parola “cancro” quanto le verrà a costare un’assicurazione sanitaria?

Il prossimo maggio la Commissione europea dovrebbe introdurre un codice sulla privacy dei dati e, si vocifera, anche la rete invisibile delle third party requests dovrebbe subire un sostanziale taglio. Nel frattempo come fare se vogliamo saperne di più sulla flatulenza cronica e non vogliamo farlo sapere a mezzo mondo? Wikipedia – immune a quanto pare ai ficcanaso del virtuale – o le care vecchie, innocue, enciclopedie.