Cronaca | Gastbeitrag

"Non chiamiamolo revenge porn"

La docente di Unibz Kolis Summerer, coautrice di un libro pubblicato da Oxford University: "Più rispetto per le vittime. Si parli di abuso di immagini intime".
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Foto: Non una di meno
  • Il volume “Criminalizing Intimate Image Abuse: A Comparative Perspective” di Kolis Summerer e Gian Marco Caletti fa il punto della situazione in ambito penalistico a livello internazionale su un tema sempre attuale, quello dell’abuso di immagini intime. Kolis Summerer, docente di Diritto penale alla Facoltà di Scienze della Formazione, è responsabile del progetto di ricerca “Creep – Criminalizing Revenge Porn?” che, sviluppato negli anni tra 2019 e il 2022, è stato il primo progetto di ricerca italiano dedicato al tema della divulgazione non consensuale di immagini sessualmente esplicite.

    Professoressa Kolis Summerer, come nasce il libro “Criminalizing Intimate Image Abuse: A Comparative Perspective”, edito dalla Oxford University Press?

    Il volume nasce alla conclusione del progetto interdisciplinare di ricerca ”Creep – Criminalizing Revenge Porn?”, che metteva sotto la lente il fenomeno dell’abuso delle immagini intime e che ha visto la collaborazione di esperti di diritto penale, informatica e psicologia. Il libro rispecchia questa molteplicità di sguardi e approcci scientifici, pur nel quadro di una impostazione più giuridica. Il volume curato da me e Gian Marco Caletti raccoglie contributi relativi alle questioni fondamentali relative alla criminalizzazione di queste nuove modalità di offesa alla persona e alle modalità in cui, in varie parti del mondo, gli ordinamenti giuridici regolano questo fenomeno. Ciò che, a mio avviso, dà importanza al nostro lavoro è il fatto che si tratta probabilmente del primo libro che affronta in modo così completo il tema da un punto di vista giuridico. Finora tanti libri se ne sono occupati dal punto di vista culturale, sociologico, psicologico, però mancava a livello internazionale un testo di riferimento proprio sull’esigenza di rendere questi fatti dei reati e punirli come tali. 

  • Kolis Summerer: La professoressa di Unibz ha realizzato la prima ricerca sul tema in Italia. Foto: Unibz

    È possibile dare una definizione univoca del fenomeno? 
    Nel libro abbiamo affrontato anche il problema terminologico, che non è di poco conto. Il nostro progetto di ricerca, come accennato, era dedicato al cosiddetto  “Revenge Porn”: si trattava di una definizione accettata e in uso fino a qualche anno fa. Adesso la situazione è completamente diversa. Già durante il progetto avevamo problematizzato la scelta di definire in questi termini il fenomeno. Adesso è chiarissimo che il concetto di “revenge porn” va evitato, perché risulta fuorviante e spregiativo, poco rispettoso delle vittime. Allude alla pornografia, quando in realtà non si tratta di immagini pornografiche in senso stretto, e fa riferimento alla vendetta, quando in realtà le motivazioni degli autori sono spesso diverse. 

    Come viene definito in altri Paesi?

    Nel mondo si rinvengono diverse locuzioni e tutto dipende da come i diversi ordinamenti inquadrano il fenomeno: come una violazione della privacy, che offende il diritto alla propria immagine e riservatezza, oppure come reato a sfondo sessuale, che lede la libertà e integrità sessuale della vittima. Per il nostro libro abbiamo scelto la definizione di “intimate image abuse”, che ci appare neutra e sufficientemente ampia da ricomprendere le diverse manifestazioni di questo reato. Nella comunità scientifica è molto diffusa, specialmente nella letteratura nordamericana e australiana, di stampo anche femminista, la definizione “image-based sexual abuse”, che contiene un chiaro riferimento alla sessualità.

    In Italia come ha reagito l’ordinamento?
     In Italia la diffusione di immagini intime costituisce un reato da quando il “Codice rosso” del 2019 ha introdotto  il nuovo delitto chiamato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Il legislatore italiano si è attenuto a una definizione piuttosto neutrale ed ha collocato la nuova norma vicino al reato di stalking. Si tratta di una sistemazione significativa: il legislatore ha inquadrato il fatto non tra i reati sessuali, non tra i reati contro la riservatezza o la privacy, bensì tra i reati che tutelano l’autodeterminazione della persona, facendone un reato contro la libertà (morale) della persona. Il riferimento non è soltanto a immagini sessualmente esplicite, ma al fatto che queste siano intime, cioè destinate a rimanere private .

    Da questa scelta derivano vantaggi per la tutela delle vittime?

    No, la scelta della collocazione del reato è soprattutto simbolica. È poi la norma, a prescindere dal suo inquadramento, a disciplinare un determinato reato, descrivendo il fatto e indicando la pena e le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti.

    Come capita in generale nei reati a sfondo sessuale, pochi casi vengono denunciati e portati all’attenzione dell’autorità giudiziaria. 

    Cosa può essere definita un’immagine intima?

    Il legislatore tutela l’immagine sessualmente esplicita che sia intima, cioè destinata a rimanere privata, perché realizzata con l’intento di limitarne la circolazione e diffusione. Il soggetto la considera una sua cosa riservata, che non è destinata a essere vista da più persone. L’immagine o il video solitamente nascono per essere condivisi con il partner o con determinate persone, ma non sono destinati ad essere diffusi ad un pubblico più largo e indiscriminato. Siamo in presenza di una norma ancora abbastanza giovane, che ha avuto una applicazione ancora limitata; è presto dunque per registrare precisi indirizzi giurisprudenziali in merito. Inoltre, come capita in generale nei reati a sfondo sessuale, pochi casi vengono denunciati e portati all’attenzione dell’autorità giudiziaria. 

  • Il Tribunale: Sono pochi i casi di abuso di immagini intime che vengono denunciati e finiscono in tribunale.

    Ci sono quindi molti casi “sommersi”?

    Sì, i casi con cui potremmo confrontarci saranno sempre e comunque un numero abbastanza ristretto, perché la cifra oscura è molto elevata. Sono poche le persone che decidono di esporsi con una denuncia e di intraprendere un procedimento penale. Ma le cose stanno lentamente cambiando: l’opinione pubblica è sempre più attenta sensibile verso queste forme di abuso e la condanna sociale costituisce può aiutare le vittime a trovare la forza per denunciare.

    Le disposizioni del diritto penale sono l’unico strumento per contrastare questo reato? Quali ne sono i limiti?

    Anche questo è un tema che abbiamo trattato nel libro, che contiene diversi contributi molto interessanti che affrontano il tema da un punto di vista più generale, culturale e sociale. Si pensi, al tema generale dell’immagine sessuale e della pornografia nella società contemporanea. La pornografia, se riguarda gli adulti ed è consensuale, non costituisce reato ed è ovviamente un’attività del tutto libera e lecita. Tuttavia, negli ultimi tempi il tema della regolamentazione della pornografia è tornato in auge con la diffusione delle piattaforme online di condivisione di materiali e video “autoprodotti” dagli utenti (c.d. “pornografia domestica”) oppure in relazione agli effetti (soprattutto dei più giovani) della pornografia estrema e violenta. Considerata la vasta produzione e diffusione di questi materiali, resi oggi facilmente accessibile, pone degli interrogativi riguardo al rischio di abusi e tutela dei soggetti vulnerabili.

    C’è il problema anche della corresponsabilità nella diffusione di video e immagini intime.   
    Non c’è dubbio che la responsabilità può ricadere non solo sul primo diffusore delle immagini intime, ma anche su eventuali altri soggetti che “rimbalzano” i contenuti, inoltrandoli e diffondendoli a loro volta (sono i cosiddetti  “secondi diffusori”).

    In quel caso è un problema pensare anche di usare il diritto penale.

    Si, perché è impossibile, oltre che inopportuno, punire a tappeto tutti quelli che entrano in possesso di queste immagini e poi le inoltrano. Il nostro legislatore ne è consapevole e ha previsto che i secondi diffusori siano punibili solo se agiscono con una intenzione lesiva, cioè se hanno l’intenzione di cagionare un danno alla vittima. Occorre quindi dimostrare l’intenzione di ledere e danneggiare la persona ritratta nelle immagini e quindi la consapevolezza che non vi sia il suo consenso e che l’immagine è destinata a rimanere privata. Si tratta evidentemente di un elemento piuttosto difficile da provare in giudizio. Purtroppo accade che sulle chat o sulle piattaforme online le persone ricevano immagini e video senza conoscere la persona ritratta e senza sapere come e in quali circostanze le immagini siano state realizzate. Si potrebbe essere indotti a pensare che la persona ritratta era consenziente e in leggerezza si inoltra il contenuto. Il diritto penale va utilizzato per colpire gli autori che agiscono con consapevolezza e con una precisa intenzione lesiva; negli altri casi, esistono strumenti ben più efficaci e utili. 

    Quali potrebbero essere strumenti alternativi?
    Sicuramente la prevenzione e, in generale, le attività di sensibilizzazione e di educazione digitale soprattutto delle nuove generazioni. Una volta che il reato si è verificato si potrebbero sperimentare percorsi alternativi, basati sulla mediazione e riparazione del danno e la giustizia riparativa. 

    Di cosa si tratta?

    È una nuova frontiera. Anche su questo tema abbiamo inserito dei contributi all’avanguardia. Tradizionalmente, gli strumenti della mediazione e della giustizia riparativa non vengono applicati ai reati sessuali, per ovvie ragioni. Tuttavia, nel caso di abusi di immagini intime e sessuali la situazione potrebbe essere diversa: forse c’è spazio per un confronto tra le parti per comprendere le ragioni del comportamento dell’autore e risolvere il conflitto in modo soddisfacente per la vittima. 

    È una prospettiva che viene applicata?

    Sì, nei paesi anglosassoni, che hanno una lunga tradizione di restorative justice e giustizia di comunità. Il momento del confronto con la vittima potrebbe servire anche all’autore per prendere consapevolezza del fatto che ha commesso un atto grave, che ha causato seri danni alla vittima.

    Ma oltre al confronto, ci sono anche pene accessorie? 
    La giustizia riparativa, teoricamente, si sostituisce alla giustizia tradizionale. Il percorso che fa il colpevole si basa sul confronto, sull’acquisizione di consapevolezza delle conseguenze dei propri atti, sul riconoscimento del fatto che c'è una vittima a cui è stato fatto del male e la pena tradizionale, detentiva o pecuniaria, viene sostituita con qualcosa di diverso. Il percorso di rieducazione e riparazione del danno può prevedere il risarcimento del danno commesso tramite attività che la vittima ritiene utili e necessarie. Per esempio: le scuse oppure un risarcimento in denaro o, ancora, l’ammissione pubblica di colpevolezza. Se pensiamo a contesti giovanili, queste strade forse possono essere più utili anche perché contribuiscono alla educazione e sensibilizzazione delle persone. 

    I big player del web come Google, Facebook, ma anche le piattaforme di pornografia domestica, sono molto interessati a stabilire delle regole per tutelare i diritti degli utenti, 

    Ma le piattaforme online si stanno muovendo per arginare il fenomeno?

    Le piattaforme sono molto interessate a prevenire comportamenti abusanti e inappropriati dei loro utenti. I big player del web come Google, Facebook, ma anche le piattaforme di pornografia domestica, sono molto interessati a stabilire delle regole per tutelare i diritti degli utenti, proprio perché vogliono essere dei luoghi sicuri in cui le persone sanno che gli abusi non sono tollerati, perché possono essere segnalati e la piattaforma reagisce prontamente. Si stanno diffondendo protocolli e standard comuni che riguardano sia le modalità di segnalazione di contenuti impropri e di abusi sia i meccanismi di rimozione dei contenuti illeciti e l’esclusione di coloro che commettono queste violazioni. Si punta decisamente sulla sensibilizzazione della community e dei c.d. bystander

    Proseguirà la Sua ricerca in questo ambito?

    Certo! Al momento sono impegnata in un progetto sulla definizione di “contenuto illecito”, che ho avviato grazie ad un finanziamento di Google, nell’ambito del programma Google Trust & Safety. Parallelamente sto approfondendo il tema della giustizia riparativa, anche nell’ambito di un progetto didattico in collaborazione con le università di Trento e Innsbruck. 

  • L'autore

    Arturo Zilli è responsabile dell'Ufficio staff del settore Stampa e organizzazione eventi di Unibz.