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Società | kalašnikov&valeriana

Reati di mafia & di violenza di genere

Gli omicidi ascrivibili alla criminalità organizzata sono in netto calo, i femminicidi restano stabili. Una possibile chiave di lettura rispetto questo fenomeno.
  • In questi giorni inerenti alle mie ricerche sui femminicidi, diverse persone hanno comparato questo reato (e in senso più ampio i reati di violenza di genere) ai reati di mafia. Chi per sottolineare le difficoltà del lavoro di repressione in questo contesto, chi per portare un altro esempio per un fenomeno culturale alquanto resistente. Nel primo caso mi sfugge il nesso, visto che vive sotto scorta chi in un modo o nell’altro lavora contro la criminalità organizzata. Chi giudica, narra o assiste un uomo maltrattante o femminicida, invece non ha ripercussioni tali sulla propria vita. Tutt’al più, pensando alle storie raccolte negli anni, sono le donne che accedono ai Centri d’Ascolto Antiviolenza, le donne che ci lavorano e le donne che le rappresentano le persone che devono guardarsi le spalle. 

    Tornando ai delitti di mafia, o forse meglio alla grande differenza fra i due fenomeni citati: nessuno si sognerebbe mai di ignorare o di sottovalutare gli elementi che precedono un delitto di mafia. Quando un commerciante in una zona con determinati clan decide di non pagare il pizzo, questo rifiuto è un elemento di rischio che, quando intercettato da un operatore giudiziario, comporta l’immediata predisposizione delle misure necessarie per la tutela della persona, indipendentemente dal fatto che sia stata sporta o no una denuncia formalizzata. Tutte le persone coinvolte sono ben consapevoli del rischio.

    Ebbene, lo stesso approccio potrebbe essere adottato allora in casi di violenza domestica, considerando i fattori di rischio più importanti: una separazione in corso, la presenza di figli e… la paura della donna. Il punto è che a differenza di qualsiasi altro reato, né chi agisce e né chi subisce la violenza è necessariamente in grado di vederla. E chi, invece, potrebbe riconoscerla, non lo fa oppure ridimensiona i fattori di rischio a causa degli stereotipi che glielo impediscono. Partiamo dal non credere alle parole della donna e finiamo col ridimensionare la portata della violenza. Un po’ come se di fronte a un delitto di mafia pensassimo che l’occupazione di pecore da un terreno all’altro fosse una narrazione esagerata oppure un semplice desiderio di vendetta, anziché comprendere che è una affermazione di potere mafioso. Il parametro da comprendere è quello del potere: per l’uomo violento è la donna stessa un luogo di potere, non è una persona. E non è mai una questione di carattere, di impulsi o di sentimenti. È proprio questione di potere.

    Nel caso della criminalità organizzata, la formazione specifica, radicata, necessaria e pretesa che permette di riconoscere i fattori di rischio e di tutelare la vittima, porta i suoi frutti. Infatti, gli omicidi ascrivibili alla criminalità organizzata sono in netto calo, nel 2024 sono stati 15. Chi, invece, dovrebbe intercettare la violenza maschile contro le donne per la professione svolta, ad oggi non ha nessun obbligo alla formazione in questo ambito e può essere (e spesso è) ritenuto abbastanza “sensibile” o propenso ad occuparsene. Sarà un caso che, sempre nel 2024, i femminicidi in Italia (secondo la conta dell’Osservatorio di #nonunadimeno) sono stati 114?