Cultura | Storia

La lunga ombra dei pregiudizi italo-tedeschi

Come si costruiscono (e si smontano) i pregiudizi nazionali? Paolo Emilio Petrillo, con un libro sull’8 settembre 1943, ci aiuta a comprenderlo.

Quando mio padre raccontava dell’8 settembre 1943 – erano i suoi ricordi di bambino – e del proclama di Badoglio, citava sempre una frase detta da un parente, nella circostanza il più lesto a capire che l’armistizio non avrebbe portato la pace che tutti si attendevano: “Ora sì che viene il bello…”. Il “bello”, cioè il “brutto”, sarebbe stato rappresentato da due degli anni più laceranti e drammatici della recente storia italiana, con il Paese invaso da truppe straniere e una popolazione civile spezzata in tre tronconi: la grande maggioranza di chi subiva la situazione cercando di tirare avanti in qualche modo, quelli rimasti fedeli a Mussolini e all’ex alleato tedesco e i partigiani. Un periodo sul quale noi italiani pensiamo di sapere, se non tutto, almeno moltissimo, ma del quale era mancata finora la “versione tedesca”, ossia il modo con il quale i germanici vissero prima la dissoluzione del governo fascista e poi il cambio di fronte che li identificò “improvvisamente” (anche se non certo “inaspettatamente”) come nuovi nemici da combattere.

A colmare almeno in parte questa lacuna è uscito di recente un libro scritto da un giovane storico e giornalista romano, Paolo Emilio Petrillo: Lacerazione / Der Riss. 1915-1943: I nodi irrisolti tra Italia e Germania, La Lepre Edizioni, 2014. Il volume, riportando la testimonianza di molti ex partecipanti alla guerra e avvalendosi di una cospicua messe di fonti (tra le quali le cosiddette Meldungen aus dem Reich), espone in primo luogo i motivi di una tale rimozione, comprensibile alla luce sia del complesso di colpa patito dai tedeschi dopo la sconfitta – difficile tacciare apertamente l’ex alleato di “tradimento” nel quadro di nefasta responsabilità alla quale essi non potevano sottrarsi –, sia perché la libera opinione su quei fatti è stata all’origine impedita e comunque sempre “calibrata” dalla tenace propaganda hitleriana. Abbiamo chiesto all’autore di illustrarci i temi principali del suo libro.

Può tracciare brevemente il suo profilo biografico e spiegarci da cosa è nato il suo interesse nei confronti degli eventi raccontati in Lacerazione/Der Riss?
Paolo Emilio Petrillo: Ho frequentato il liceo classico a Roma, poi all’università ho studiato filosofia e storia, laureandomi con Emilio Garroni su Martin Heidegger. Alla fine dell’università, grazie ad un anno di Erasmus nel Nord Reno Westfalia, conoscevo un po’ il tedesco e così dopo la laurea sono tornato in Germania, questa volta a Berlino. Lì ho cominciato un dottorato alla Frei Universität in Relazioni Internazionali. Nel frattempo ho iniziato anche a collaborare con un’agenzia di notizie online italiana. Tornato a Roma ho preso il tesserino con le agenzie stampa e dopo un paio d’anni, soprattutto grazie alla conoscenza del tedesco, mi sono trovato ad occuparmi di Germania, di diplomazia e di relazioni italo-tedesche. Osservando per anni il discorso pubblico e le relazioni tra i due paesi non potevo non notare un fatto evidente: dietro le ricorrenti polemiche (spesso di bassa lega) fra Italia e Germania esistevano nodi storici irrisolti. E uno di questi nodi mi sembrava essere l’8 settembre, quell’Achsenbruch che dalla Germania post-1945 non era mai stato esplicitamente raccontato ma, per comprensibili ragioni, affidato al si dice”, andando però così a cristallizzarsi in una sorta di tacita certezza nazionale. Intorno al 2007 sono tornato quindi a Berlino come giornalista, e lì ho cominciato a raccogliere il materiale per un libro che cercasse di ricostruire la versione tedesca dell’8 settembre 1943. Non volevo comunque scrivere un libro accademico, un po’ perché non sono uno storico di professione, e soprattutto perché, trattando appunto di nodi storici, cioè di cose che influenzano grandi masse per generazioni, pensavo che il libro sarebbe stato più utile rendendolo, almeno potenzialmente, accessibile a un pubblico più ampio. Quindi l’interesse per quel periodo storico viene da lontano, dalla curiosità intorno alla seconda guerra mondiale, l’8 settembre e la guerra partigiana – che mi sembrava, e in fondo mi sembra anche oggi, la pagina più bella della storia italiana del Novecento.

Esistono pubblicazioni in tedesco esplicitamente dedicate al tema del “tradimento” italiano sulle quali ha potuto basare il suo lavoro, ha avuto difficoltà, ha incontrato resistenze o reticenze nel cercare la collaborazione dei testimoni?
No, opere in tedesco esplicitamente dedicate al tema non mi risultano. Ci sono alcuni sporadici riferimenti nelle pubblicazioni che trattano lo stesso periodo, quello che ho trovato ho citato. Per quanto riguarda le difficoltà a reperire testimoni direi complessivamente di no. Non pochi dei veterani intervistati mi hanno anzi detto che avrebbero risposto volentieri alle mie domande, anche perché era la prima volta, in settanta anni, che qualcuno andava a chiedere loro ricordi e impressioni sull’argomento. Certo, tolte alcune eccezioni, fra cui i due casi opposti di un ex tenente delle SS e di un disertore passato nelle fila dei partigiani italiani, la maggior parte degli intervistati ha chiesto di poter mantenere l’anonimato. E più d’uno ha detto di non ricordare esattamente in quale divisione o battaglione avesse prestato servizio. Ci sono stati poi anche un paio di casi di persone che hanno rifiutato l’intervista, fra l’altro con modi piuttosto coloriti, e ne faccio cenno in una nota del libro. Dove invece direi che ho percepito una trasversale reticenza è sulla questione ebraica. Sull’Olocausto si sono espressi tutti praticamente con le stesse parole: non ne sapevano niente, avevano appreso tutto a guerra finita. Magari sapevano dei campi di concentramento, ma non avrebbero mai immaginato l’orrore che vi veniva praticato. Una versione che in alcuni casi mi è sembrata decisamente poco verosimile.

In tutte le interviste e i colloqui citati nel libro si ha come un’oscillazione tra la tesi del “tradimento” e quella di un’opportunità, colta dagli italiani e forse invidiata dai tedeschi, di spezzare la catena imposta loro dalla dittatura. Può definire meglio questa ambivalenza e dirci cosa prevale?
L’oscillazione di cui parla è probabilmente dovuta alla compresenza, da una parte, della propaganda hitleriana, che a fronte di una guerra che va sempre peggio cerca nel “traditore” anche un capro espiatorio. E, dall’altra, della percezione della popolazione civile e anche di molti militari, i quali, indovinando il deteriorarsi della situazione, si augurano che vengano risparmiati comunque drammi peggiori e che la guerra finisca presto. Quella italiana, dunque, appare per certi versi una soluzione pensabile (anche se di fatto impraticabile). Contemporaneamente è difficile non capire come, agli occhi della stessa popolazione civile e ancor più dei militari, il proclama Badoglio possa esser apparso come il venir meno dell’alleato proprio nel momento di difficoltà. Quindi, se dovessi dire cosa prevale, la risposta è forse depositata negli stereotipi più classici: da un lato quello degli italiani inaffidabili e tendenzialmente pronti a tradire, e dall’altro quello di un popolo che sa godersi la vita anche cogliendo al volo l’occasione per migliorare le proprie condizioni di vita.

Questo vuol dire che non possiamo rinunciare alla lente dei pregiudizi, che chi pensa di metterli in questione è destinato a fare sempre un buco nell’acqua?
Non esattamente, ma colgo l’occasione per dire che il termine “pregiudizio”, almeno usato con riferimento a questo dibattito, rischia di essere fuorviante. Nei fatti, più che di “pregiudizi” si tratta di “post-giudizi”, cioè di giudizi, valutazioni, atteggiamenti che si sono sviluppati a fronte di esperienze storiche vissute. L’elemento pre-giudiziale scatta forse quando queste valutazioni diventano inerziali, e diventano la lente, appunto, con cui guardiamo sia il passato sia, soprattutto, quello che accade di nuovo. Come si decostruisce un pregiudizio, e se è in generale possibile farlo, non lo so. Forse lo si può al massimo ostacolare: e, a riguardo, diciamo che continuo ad appoggiarmi al vecchio “pregiudizio” illuminista, secondo cui è, in generale, meglio raccontare che tacere.

Ma per l’appunto, l’identità nazionale è costituita anche da un fascio di narrazioni, cioè di racconti che sfruttano l’orientamento contrario di altre narrazioni (adottato in altri contesti nazionali). Tale identità non può che generare “memorie divise” o comunque “non convergenti”. Che cosa occorre dunque fare per superare quelle “incomprensioni” che, come si legge nel risvolto del libro, “ostacolano la creazione di un’Europa politica?”
Il racconto tedesco sull’8 settembre 1943 è in gran parte un discorso su di noi e rappresentava quindi l’occasione di tematizzare come ci hanno visto o vedono gli altri. Un movimento contro-inerziale, se così si può dire, dove l’inerzia è invece l’affidarsi senza confronto alle proprie tacite certezze nazionali. E visto che parlavamo di pregiudizi, forse l’unico modo per superare i confini di un’informazione pregiudizialmente nazionale è favorire un’informazione realmente europea, ovvero che sappia far dialogare i diversi punti di vista a cominciare dalla messa in questione degli automatismi che li pongono in essere.

Possiamo fare un esempio concreto, anche prendendo spunto da alcuni recenti fatti di cronaca poi amplificati in modo “oppositivo” dagli italiani e dai tedeschi?
Come ha sottolineato più volte il professor Gian Enrico Rusconi, germanista d’eccellenza che ai rapporti italo-tedeschi ha dedicato anni di studio, un ruolo centrale nel tenere in vita le reciproche immagini stereotipate lo svolgono purtroppo i media, sia italiani che tedeschi. L’ultimo e clamoroso esempio risale a poche settimane fa, quando all’indomani della tragedia del volo Germanwings, “Il Giornale” di Alessandro Sallusti non ha perso l’occasione di titolare a tutta pagina: “Schettinen”, andando così a ripescare una polemica risalente al 2012. Si ricorderà come allora, dopo il naufragio della Costa Concordia, toccò al settimanale “Der Spiegel” e alla penna di Jan Fleischhauer sottolineare la vigliaccheria e faciloneria degli italiani, evidentemente tutti simboleggiati dal pessimo capitano Schettino. Un duello a colpi di alta stupidità, considerato evidentemente irrinunciabile da quei direttori che pensano di vendere più copie mantenendo il lettore sotto la coperta delle abituali antipatie nazionali. Ecco, a voler decostruire i “pregiudizi” sarebbe auspicabile un’informazione diversa, che punti a guadagnare lettori grazie alla qualità del lavoro svolto e non al vezzeggiare delle peggiori inerzie. Un’informazione che forse non incontrerebbe il favore di tutti i lettori odierni ma che, ritengo, potrebbe rappresentare l’unico ostacolo serio al progressivo crollo di credibilità e vendita delle testate tradizionali.

Qual è stata sinora la ricezione del suo volume, ha potuto già verificare alcune reazioni? Sarebbe opportuna, a suo giudizio, una traduzione in tedesco?
Per ora mi sembra che la ricezione sia buona, sia guardando le recensioni uscite che sentendo i commenti di chi lo ha letto. Al momento, tra l’altro, in Italia nessuno ha sollevato critiche o sospetti di revisionismo. La cosa non mi sorprende, considerando tono e impostazione del libro, ma pensando all’argomento e alla prospettiva scelta sarebbe anche potuto accadere. Una traduzione in tedesco risulterebbe sicuramente opportuna. Almeno giudicando dai primi sondaggi che ho fatto, penso però che in Germania il timore di attirare critiche di revisionismo pubblicando o sostenendo un libro che dia la parola ai tedeschi su questo argomento sia ancora piuttosto forte. Chissà, magari troverò comunque un editore coraggioso.