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Politica | SALTO change

La capitolazione

Kamala Harris lo aveva previsto, ma non immaginava la rapidità della resa: dai talk show cancellati ai giornalisti silenziati, fino alle accuse rovesciate all’Europa, la tattica trumpiana mostra l'eterna fragilità della libertà di parola.
  • Alcune settimane fa, in un’intervista nel programma televisivo di Stephen Colbert, Kamala Harris aveva detto di non essere sorpresa da tutto quello che Donald Trump stava facendo: da candidata alla presidenza, aveva appena ricordato Colbert, Harris aveva messo in guardia contro tutto ciò che Trump avrebbe poi fatto — perseguitare i suoi nemici politici, tagliare i programmi di welfare Medicaid e Medicare, ignorare le ordinanze dei tribunali, alienare gli alleati e concedere massicci tagli fiscali ai ricchi. Per questo Harris era stata accusata di essersi occupata più dei pericoli per la democrazia che dell’inflazione, perdendo così l’elezione (insieme a molte altre cause, tra cui la testardaggine di Biden e la sua stessa debolezza come candidata, ma non è questo il tema di oggi).

    Quello che l’aveva davvero sorpresa era stata la capitolazione di fronte a Trump: “Forse è ingenuo da parte mia, ma credevo che, in qualche modo, ci sarebbero stati molti che si considerano custodi del nostro sistema e della nostra democrazia che invece hanno semplicemente capitolato”, osservava Harris nell'intervista.

    Stephen Colbert ovviamente sapeva benissimo di cosa stesse parlando. Solo due settimane prima il suo talk show serale era stato cancellato dalla rete CBS, ufficialmente per ragioni commerciali (come tutti i programmi tv, anche quello di Colbert soffre il calo dell’audience), ma ampiamente attribuito all’antipatia di Trump per Colbert — che lo prende di mira ogni sera — e al bisogno della casa madre Paramount di concludere un affare miliardario: la fusione con Skydance Media, puntualmente approvata dalla Federal Communications Commission (FCC, l’ente che regola le trasmissioni televisive e le licenze) subito dopo il licenziamento di Colbert.

  • Spostare altrove l'accusa

    Ho ripensato alla “capitolazione” citata da Harris dopo la cancellazione (ops: sospensione a tempo indeterminato) di un altro talk show, quello di Jimmy Kimmel. Pochi giorni fa Kimmel aveva commentato l’assassinio di Charlie Kirk accusando il movimento MAGA di averne politicizzato la morte. Mentre nel caso di Colbert la rete si era nascosta dietro scuse finanziarie e aveva concesso al conduttore quasi un anno di tempo, la sospensione di Kimmel è arrivata immediatamente dopo che il presidente della FCC, Brendan Carr, nominato da Trump, aveva avvertito che se la rete ABC (controllata da Disney) non avesse preso provvedimenti sarebbe intervenuto direttamente - con le buone o con le cattive. Non serviva altro per una resa immediata: il programma è stato subito tolto dalla programmazione.

    È difficile descrivere la portata delle parole di Carr e il significato della capitolazione di ABC/Disney. Con tutte le misure autoritarie con le quali l’amministrazione Trump intende rifare l’America, comprese le retate indiscriminate di immigrati, e l’aumento pericoloso della violenza politica — da ultimo l’assassinio di Kirk in un campus universitario — la cancellazione di un late night show  può sembrare una cosa quasi frivola. Ma c’è qualcosa di veramente minaccioso nell’attacco frontale al comandamento laico della libertà di parola che guida la società americana (con tutte le sue immense contraddizioni) da secoli e che trova espressione costituzionale nel veneratissimo e invocatissimo Primo Emendamento. Attacco che avviene mentre lo stesso Trump continua a impartire lezioni di free speech agli europei, da ultimo a Londra, dove ha accusato governi e istituzioni di limitare la libertà di parola in nome della sicurezza, della moderazione o dei valori “woke”. D’altronde era stato questo il biglietto da visita con cui si era presentato all’Europa il vicepresidente J.D. Vance: parlando a febbraio a Monaco aveva detto che “in Europa la libertà di parola è in ritirata” — parole che suonavano stonate allora e che oggi appaiono semplicemente assurde, ma rientrano splendidamente nella migliore tattica trumpiana: ribaltare l’accusa. Negli Stati Uniti, sotto la sua amministrazione, giornalisti vengono esclusi dagli spazi istituzionali, comici messi a tacere, media etichettati come “nemici del popolo”. Ma l’accusa viene spostata altrove.

    Anche nel nostro piccolo non mancano episodi che ricordano questa logica – esempi meno eclatanti ma significativi. La consigliera provinciale Renate Holzeisen ha bacchettato RAI Südtirol per l’uso dell’appellativo “ultradestra” per descrivere Charlie Kirk, accusando poi la rete pubblica di far parte di un sistema mediatico globalmente controllato da agenzie di stampa che plasmano "un corridoio di opinione, il cosiddetto mainstream, in cui i presunti giornalisti si compiacciono di un giornalismo di posizione". Non è più solo una critica, ma un tentativo di delegittimare il giornalismo stesso.

  • I comici sono i primi ad essere cacciati

    I comedy show sono una cosa seria negli Stati Uniti, dove l’umorismo è nel DNA del pensiero critico della nazione, con un premio intitolato allo scrittore Mark Twain che ogni anno celebra il meglio della satira. Nel riceverlo (dopo essere stato introdotto, tra gli altri, da Jimmy Kimmel), il conduttore di uno dei più sarcastici e intelligenti comedy show, Jon Stewart, ammoniva già nel 2022 che “quando una società è minacciata, i comici sono i primi a essere cacciati.” Gli autocrati, spiegava, rappresentano una minaccia non solo per la commedia, ma per la musica, l’arte, la poesia, il progresso. “Non è la polizia antiwoke il problema: è sempre stata e sarà sempre la polizia segreta.”

    Tutto questo, concludeva Jon Stewart, dimostra quanto quello che abbiamo sia fragile e prezioso. Tre anni dopo, con Trump che ha già indicato il nome del prossimo comico che deve essere messo a tacere, dobbiamo ricordarci anche che la resa è sempre dietro l’angolo.