Due uomini qualunque.
“Pattone”, in quella striscia di terra tra mar ligure e pianura padana, significa letteralmente “ceffone”, schiaffo. Declinato al femminile (“pattona”), a Massa e Carrara indica un pane rotondo e non lievitato, simile ai panigacci della Lunigiana, cotto su piastre d’acciaio arroventate chiamate “testi” e servito con affettati o formaggi. E’ molto comune, in Italia, alternare “pattone” e “pattona”: un po’ come si usava fare attraverso il bastone e la carota coi poveri asini da soma. «Continueremo ad agire sull’asino italiano («on the italian donckey») da ambedue le parti, con una carota e un bastone»: queste parole furono pronunciate da Winston Churchill nel 1943, in merito al modo in cui – secondo lui – andava trattato il popolo italiano. Dopo la carota “berlusconiana” (meglio non aggiungere possibili allusioni alternative), nel 2011 giunse la temibile stagione del bastone: il governo del professor Mario Monti. L'inquilino di Palazzo Chigi archiviò l’era carotina del predecessore e inaugurò un’epoca, testuali parole, «di lacrime e sangue» onde diventare «modello in Europa». Affermazioni che la dicono lunga sull’idea ambivalente di “insegnamento”: anziché (ri)formare ed educare gli italiani, bisogna umiliarli con orgoglio. Pratica non distante dalla psicologia fascista, tra bacchettate sulle mani ed esaltazione dell’Italia imperiale. Nel Ventennio l'Italia affidò a Mussolini la regia di tale “rivoluzione delle coscienze”, elevandolo a guida spirituale immacolata; sappiamo come lui incarnasse alla perfezione il preistorico celodurismo dell’identità italiota, secondo cui «educammo tutti gli altri alla lingua, al diritto, alle arti». E' la propensione all’«uomo della provvidenza» innocente e puro, al «collegio unico» giudicante i vizi della Nazione. Ma dopo il ventennio fascista, vent'anni di Berlusconi o un anno di Monti, tutto restò come (o peggio di) prima.
Alle elezioni politiche, una volta archiviato (?) Monti, arriva la palingenesi che punta al 100%: Beppe Grillo. Secondo i più, paragonarlo al duce non sarebbe del tutto calzante. C'è chi azzarda un altro parallelismo: il comico genovese s'ispira a Giorgio Gaber – che, come lui, ritenne quantomeno consumata la distinzione tra Destra e Sinistra – tanto da citarlo in una perfida arringa contro gli intellettuali (“quando il pdmenoelle chiama, loro rispondono”). Al V-day risuonò “Io non mi sento italiano” e, a ben pensarci, «sono nato e vivo a Milano / io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono» potrebbe canticchiarlo pure Monti. Il tratto distintivo che accomuna gli arci- e/o anti-italiani sta nel disprezzo per élite e partiti di sinistra. Ancora più azzeccato (benché altrettanto azzardato) appare perciò il paragone con il fronte de «L'Uomo qualunque»: il fondatore Guglielmo Giannini si scagliò contro «partitocrazia» (suo fortunato neologismo) e upp, cioé «uomini politici professionali». Da Berlusconi (il peggiore) a Matteo Renzi, passando per Monti e Grillo, questi arci-uomini “qualunque” che non lo sono affatto né vogliono esserlo – perché fieri di un'italianità debordante e intangibile – meriterebbero uno schiaffone ammonitore. Pardon, un bel pattone.