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“Siamo l’innovazione immateriale”

Roberto Calari, presidente di CulTurMedia (coop culturali), sulla crescita del settore e le criticità. “Noi la base di Industria 4.0. Web e giornalismo, sfida in corso”.
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Foto: Stefano Voltolini

Milletrecento realtà, per 25.000 addetti, di cui 20.000 nello spettacolo, 500 milioni di euro di fatturato complessivo l’anno. La metà circa, per fare un raffronto, di Rcs, un settimo di Mediaset e un sesto della Rai. Le cooperative che fanno parte di CulTurMedia, l’associazione di settore di Legacoop nazionale, rappresentano per il suo presidente Roberto Calari (a Bolzano per un incontro con le coop di settore promosso da Legacoopbund) un comparto in crescita in anni di trasformazione e di crisi, soprattutto per l’informazione rivoluzionata da internet e dal digitale. Se permangono alcune criticità, come l’equiparazione tra le condizioni di lavoro nel giornalismo online rispetto a quello su carta, dal quale proviene ancora la quasi totalità dei ricavi nell’informazione (“C’è ancora del lavoro da fare”), per Calari l’industria creativa è una risorsa in termini di sviluppo, occupazione, garanzia della dignità professionale e delle condizioni contrattuali degli addetti. “Le cooperative rispettano i contratti di lavoro, rispettano il lavoro professionale, i diritti e le tutele. Siamo piccoli, ma siamo leader. Senza la componente immateriale, senza l’innovazione sociale non si arriva a quella tecnologica che è fondamentale per l’Industria 4.0”.

salto.bz: Cosa rappresenta nel dettaglio CulTurMedia, associazione di settore di Legacoop nazionale?

Roberto Calari: L’associazione si fa portavoce di circa 1.300 cooperative dei settori beni culturali e spettacolo, turismo, sempre responsabile e sostenibile, comunicazione-editoria e informazione. Vuole costituire un luogo per consentire agli associati di scambiarsi esperienze, sviluppare sinergie e costruire insieme occasioni di crescita. Favorisce una visione intersettoriale, partendo dal ruolo della cultura per lo sviluppo economico e sociale dei territori. Inoltre siamo interlocutori nei tavoli di contrattazione nazionali più importanti e con il Ministero dei beni e delle attività culturali. E abbiamo numeri importanti. Ventimila addetti sui 25.000 totali vengono dallo spettacolo, che vuol dire teatro, cinema, produzione audiovisuale, ricerca e progettazione culturale e la gestione e la promozione di spazi a livello locale. In questo settore nello specifico le coop hanno il 35% del mercato in Italia. Io personalmente ho una storia come responsabile di settore per Legacoop nazionale a Roma e da molti anni mi occupo di cultura.

L’associazione dà voce solo a realtà medio-piccole o no?

Ne abbiamo di molto grandi. Coop Culture ad esempio, con sede a Venezia, è una delle più grandi d’Europa nei beni culturali. Doc Servizi di Verona, nello spettacolo, ha fatturati alti e 6.000 soci. Poi ci sono Mediagroup98, specializzata nella comunicazione d’impresa, e Robin Tour nel turismo. Il fatturato complessivo delle realtà associate è di 500 milioni di euro. Siamo piccoli, ma siamo leader. Gestiamo quasi mille spazi pubblici o convenzionati nei beni culturali. Una risorsa in termini di presenza e radicamento. Le cooperative sono un bene preziosissimo, per la loro storia portano competenza e valore aggiunto nei territori. E la stessa cultura è un elemento trasversale per lo sviluppo.

Sono cresciute durante la fase di crisi dell’economia italiana?

Sono in crescita. Dove c’è industria creativa c’è sviluppo. Le cooperative mostrano segni più.

Non mancano le criticità. Nell’informazione ad esempio. Le cooperative non sono una formula per pagare meno il lavoro, ad esempio quello dei giornalisti?

Assolutamente no. Le cooperative di giornalisti rispettano il contratto nazionale di lavoro. Siamo per il lavoro professionale, i diritti e le tutele. Certamente per i giornali online ci si orienta sull’equo compenso e la flessibilità, c’è da lavorarci su. Il problema in questo ambito è che i ricavi vengono ancora per la quasi totalità dalla carta, che molto spesso finanzia anche l’online. Quindi, la sfida è creare economie vere per chi sta solo sul web. In questo senso aiuta la nuova legge sul pluralismo e l’innovazione nell’informazione, che è finalmente arrivata dopo anni di mancanza di una legislazione nazionale adeguata, una fase nella quale le cooperative dell’informazione hanno risentito di quattro anni di crisi.

Sono state queste ultime le più colpite dalla crisi?

Certamente, l’unico settore che ha subito la congiuntura è stata proprio l’informazione. Abbiamo assistito ai fenomeni di concentrazione e di processi che hanno favorito i grandi gruppi. Con conseguenze negative, è stato compresso il pluralismo e la bibliodiversità. È il nostro tema di fondo e la nuova legge può aiutare a invertire la rotta.

In che termini?

La normativa prevede che il 30% del valore generale economico di imprese sane, che lavorano e hanno ricavi, possa corrispondere a incentivi differenziali che il mercato da solo non può risolvere. In pratica, si defiscalizza la pubblicità locale. Chi investe in pubblicità sul territorio, quindi comprando gli spazi dalle realtà del settore, ne ha dei vantaggi incrementali in termini fiscali. È molto importante perché permette di raccogliere gli investimenti nella comunicazione commerciale sottraendola all’oligopolio di tv e grandi gruppi nazionali. Di non lasciare tutto a Caltagirone o Repubblica per intenderci.

E per il web?

Punto da sottolineare, la legge si estende ai giornali online. Una novità importante.

In conclusione, in anni di contrazione del mercato le cooperative nell’ambito culturale sono una strada per esplorare soluzioni nuove e trovare margini di crescita?

Sono un tentativo e un’opportunità di lavoro molto importanti. Nelle coop risiede molta capacità innovativa, la componente immateriale che serve al paradigma dell’Industria 4.0. Senza innovazione sociale non c’è innovazione tecnologica. Le persone e le comunità sono al centro, non la tecnologia.