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Come il fast fashion uccide l'usato

Troppi abiti e costi in aumento fermano la raccolta di abiti di Caritas. Barta (blogger): “Siamo sommersi di vestiti scadenti e difficili da riciclare. Produciamo, consumiamo e scartiamo troppo”.
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Foto: Caritas
  • Dopo 51 anni, la Caritas ha preso la difficile decisione di interrompere la raccolta di indumenti usati, un gesto simbolico di solidarietà profondamente radicato in Alto Adige. “Purtroppo il mercato è profondamente cambiato: gli abiti usati hanno perso molto valore e ce ne sono quantità sempre maggiori che devono essere smaltite a caro prezzo”, spiega la direttrice della Caritas, Beatrix Mairhofer. “Già negli ultimi anni avevamo sospeso la grande raccolta. Ora, un nuovo regolamento UE ci costringe a una decisione definitiva”. La nuova normativa impone che anche i tessuti danneggiati vengano raccolti separatamente dai Comuni, anziché finire nei rifiuti indifferenziati, analogamente a carta, vetro e plastica.

  • Beatrix Mairhofer: “Non siamo un’azienda di smaltimento e non intendiamo diventarlo, il nostro compito è un altro.” Foto: Diözese Bozen-Brixen
  • “Per noi, si chiude un’epoca,” afferma Mairhofer. “I costi per raccolta, trasporto, selezione e valorizzazione degli abiti aumenteranno notevolmente. Per coprirli dovremmo addebitare le spese ai Comuni, ma non siamo un’azienda di smaltimento e non intendiamo diventarlo, il nostro compito è un altro.”

    La situazione riflette una crisi più ampia nel settore dell’usato. Secondo la fashion blogger Susanne Barta, il commercio del second hand è diventato sempre più complesso, sia a livello locale che internazionale. “Il fast fashion ci inonda di capi a basso costo e scarsa qualità, spesso in tessuti misti o sintetici difficili da riciclare e poco appetibili per la rivendita. Questo per i rivenditori significa meno profitti. Solo circa l’1% dei rifiuti tessili viene effettivamente riciclato. La responsabile del Centro di distribuzione vestiario (Kleiderkammer) della Società di San Vincenzo, ad esempio, ha dichiarato che la maggior parte dei capi scartati finisce da loro, per cui molte persone confondono la donazione dei vestiti con lo smaltimento dei rifiuti. Il carico di lavoro per chi ancora si occupa dei nostri vecchi abiti in Alto Adige, come la cooperativa sociale Albatros, sta diventando sempre più grande e meno redditizio”, prosegue Barta, promotrice di moda sostenibile e del movimento "slow fashion" in Alto Adige. 

  • Susanne Barta: “Solo circa l’1% dei rifiuti tessili viene effettivamente riciclato” Foto: Martin Christopher Welker
  • “Il carico di lavoro per chi ancora si occupa dei nostri vecchi abiti in Alto Adige sta diventando sempre più grande e meno redditizio”

     

    “La Caritas ha svolto un lavoro pionieristico sull'usato in Alto Adige ed ha cercato di rendere il processo il più buono ed equo possibile”, aggiunge Barta. Caritas, nel tempo, ha cercato di costruire un sistema etico e sostenibile: i capi venivano selezionati e rivenduti tramite riciclatori specializzati. “Dal 1974, con solo quattro interruzioni, abbiamo raccolto abiti, scarpe, borse e tessili per la casa in buono stato, sempre secondo criteri etici e responsabili. I proventi – in media tra i 100.000 e i 120.000 euro all’anno – hanno sostenuto i nostri servizi gratuiti per chi è in difficoltà”, spiega Guido Osthoff, che insieme a Brigitte Hofmann ha coordinato l’attività di Caritas per decenni. 

  • Un camion della Caritas durante la raccolta. Foto: Caritas
  • Ma la pandemia ha inciso duramente sui ricavi e le nuove normative rischiano di tradursi in ulteriori costi per i cittadini, con possibili aumenti nelle tariffe comunali sui rifiuti. “Non vogliamo trasformarci in un’azienda di gestione dei rifiuti. “Per questo nel corso dell’anno ci ritireremo dalla raccolta in tutti i Comuni,” conclude Osthoff. 

     

    “Produciamo, consumiamo e scartiamo troppo” 

     

    Il fenomeno non riguarda solo il Sudtirolo. “Produciamo, consumiamo e scartiamo troppo,” osserva Barta. “La maggior parte degli abiti dismessi finisce nei Paesi del Sud globale, dove crea danni ambientali, economici e sociali.” In Uganda, racconta, ha raccolto testimonianze che mostrano da un lato, che i capi di seconda mano sono utili per i bisognosi e fonte di reddito per piccole imprese; dall’altro, la loro qualità scadente danneggia il mercato tessile locale, penalizzando anche gli artigiani e gli stilisti.

    Secondo Barta, la soluzione sta nel ridurre i consumi, valorizzare la qualità e promuovere il riuso a livello locale: “Esistono negozi second hand, mercatini, reti di scambio. Possiamo donare, passare, acquistare meno e meglio. Serve anche raccogliere dati concreti: quanti rifiuti tessili produciamo in Alto Adige? Dove finiscono? Solo così possiamo costruire strategie efficaci, magari attivando progetti locali anche nel design.”