100 anni da Caporetto
Tra le molte citazioni che fotografano la cosiddetta “rotta di Caporetto”, spicca quella di Leonida Bissolati, socialista interventista, andato in guerra volontario all'età di 58 anni: “È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un'Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l'Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare, e scomparire”. Un sentimento di sconfitta che non è circoscritto, come si vede, alla stretta vicenda militare, cioè allo sfondamento dell'esercito austro-ungarico (e germanico) sul fronte orientale in uno dei suoi punti di minore resistenza, nella conca composta tra le valli del Natisone e il massiccio del monte Colovrat, all'incrocio tra il corso dell'Isonzo e la discesa verso la pianura friulana. Il sentimento di estremo fallimento (anticipando un noto titolo di Salvatore Satta, un De profundis da morte della patria) si allargava in un giudizio autocritico sul senso stesso della guerra in quel momento avvertita come (quasi) perduta, e su ciò che un intero ceto dirigente aveva chiesto esosamente al giovane paese.
Riprendendo le parole di Bissolati, in un articolo apparso domenica 22 ottobre sul supplemento culturale del Sole 24 Ore, Emilio Gentile ha ricordato anche la Commissione d'inchiesta, formata da studiosi e combattenti che, a partire dal gennaio del 1918, operò per esaminare l'intera storia nazionale al fine di comprendere le ragioni di una così sconcertante catastrofe. Una sorta di vero e proprio esame di coscienza, dunque, svolto nella consapevolezza che soltanto scavando nel passato, nelle sue contraddizioni malamente ricoperte dalla retorica bellicista, sarebbe stato possibile porre le basi per un vero riscatto morale, premessa indispensabile per tornare a rivedere la luce non solo dal punto di vista militare (a un livello diverso, e nonostante l'esperienza della resistenza partigiana, un tale esame mancò in occasione dell'altra grande disfatta italiana, quella dell'8 settembre 1943).
Oggi di Caporetto, dell'evento storico particolare, si parla perlopiù solo in occasione di determinate ricorrenze, anche se nel linguaggio comune la località slovena è ancora sinonimo di sbandamento, sconfitta disastrosa, dissolvimento di una fragile identità nazionale. L'occasione del centenario può servire allora a rivisitare il topos che in larghi strati dell'opinione pubblica internazionale ha distillato un ritratto impietoso del “carattere italiano” – dal velleitarismo imbelle alla scarsa organizzazione, fino a una quasi innata predisposizione per la diserzione e il tradimento – facendoci comprendere con più finezza la molteplicità di cause che stanno dietro a determinate circostanze. È per esempio assodato (lo spiega con dovizie di particolari il volume di Nicola Labanca “Caporetto. Storia e memoria di una disfatta”, Il Mulino) che la dodicesima battaglia dell'Isonzo rappresenta essenzialmente la drastica inversione di tendenza da una guerra d'attacco, e in effetti fino allora condotta da Luigi Cadorna in senso meramente offensivo, in una basata invece gioco forza sulla difesa, ponendo dunque in essere un rivolgimento anche psicologico delle motivazioni dei combattenti. Vittorio Veneto (che di Caporetto riuscì a lavare l'onta senza cancellarne i segni) fu possibile proprio grazie alla volontà di riscatto che la sconfitta dell'anno precedente era riuscita ad animare in un ceto dirigente rinnovato (come noto, Caporetto sancì un cambio ai vertici del Governo, con la nomina di Vittorio Emanuele Orlando, e la destituzione di Cadorna, sostituito dal generale Armando Diaz). Ma anche in questo caso il racconto consolatorio di un popolo che dà il meglio di sé quando tutto sembra ormai perduto non è che una variazione sul tema precedente, e solo l'analisi di tutti i documenti e delle testimonianze – al di là di qualsiasi retorica – può ristabilire una narrazione più attenta alla sostanza dei fatti.
Alla fine i fatti sono anche numeri, e il computo di quella battaglia rende superfluo ogni ulteriore commento: per l'Austria il bilancio fu di 20mila tra morti e feriti, mentre da parte italiana si contarono 10mila caduti, 30mila feriti, 265mila prigionieri, 350mila sbandati e oltre 600mila profughi civili – friulani e veneti, antenati di quelli che oggi con orrenda inconsapevolezza ergono cartelli con su scritto “non passa lo straniero” rivolti ai migranti.
Interessante articolo, a
Interessante articolo, a parte l'ultima frase che non si capisce cosa c'entri con i 100 anni di Caporetto??
In risposta a Interessante articolo, a di Paolo Zanandrea
Non c'entra tantissimo, era
Non c'entra tantissimo, ma un po' sì. Era solo un riferimento allo slogan "non passa lo straniero", che 100 anni fa era per l'appunto rivolto agli austro-tedeschi bloccati sulla linea del Piave, mentre oggi viene usato contro gli immigrati. Il link, se vuoi, è dovuto alla differente (in)comprensione di simili contesti di guerra (la Grande guerra, da un lato, le guerre odierne, che portano sempre ingenti movimenti di persone "straniere").
Condivido il giudizio
Condivido il giudizio positivo sull'articolo e quello un po' meno positivo sulla chiusa... attribuire a veneti e friulani il primato (o l'esclusiva) dell'intolleranza verso lo straniero non mi pare corretto... intolleranza non è sempre e solo sbraitare contro l'immigrato, cosa che, oggettivamente, a una certa parte politica che in quelle regioni dilaga riesce molto bene... è anche sbattere la porta in faccia a chi chiede aiuto, nel silenzio e nella più totale indifferenza, senza alzare cartelli, magari appellandosi a qualche cavillo giuridico. E' quantomeno una responsabilità condivisa...