Merano '44
Si infilarono di corsa dietro ai magazzini e raggiunsero l’angolo del muro di cinta, dove giaceva una discarica a cielo aperto, disordinata e puzzolente. Avevano notato che la catasta delle cassette superava di parecchio la fossa e quindi si sarebbero potute arrampicare di lì fino all’orlo del sottile muricciolo di cemento armato.
Le avevano riempite loro, quelle casse, stipate di cose da sogno: calze di seta, abiti nuovi, piccole opere d’arte, gioielli preziosi e finemente lavorati. Opera di qualche artigiano toscano d’altri tempi. Più fortunati (i tempi). Oggetti razziati in Italia nelle case rimaste vuote dopo le deportazioni. Tutto veniva accatastato ordinatamente a ridosso del muro perimetrale, come tanti pacchi sotto l’albero di Natale. Erano controllate a vista dalle SS e dai cani, terribili lupi siberiani e pastori tedeschi pronti ad azzannare ad ogni movimento sospetto, ad ogni minima trasgressione dal piano di lavoro.
Attesero il cambio della guardia. Quel giorno di fine dicembre i soldati, per la fretta di godere della libera uscita, avevano lasciato la garrita dieci minuti prima del solito. Mancava forse un quarto d’ora all’appello delle diciotto. Albertina ed Ernesta si fissarono nella gelida penombra. Uno sguardo rapido ed intenso, quasi a dare conferma al loro intrepido patto, ad un azzardo che avrebbe potuto costare loro molto caro. Tuttavia l’eco sinistra del ghigno del militare, risuonato mezz’ora prima, aveva tolto loro ogni dubbio: “E’ tempo che siate rispedite a Bolzano... Ma ci sono le feste, e poi… voi non scappate”. Bolzano significava lager vero, baracche, blocchi, sfregi, fame, urla strazianti, il ringhio animalesco. Fino al momento in cui qualcun altro avrebbe sentenziato: “E’ tempo che siate spedite in Germania”.
Trovarono la fossa vuota. Le casse sparite in qualche camion coperto di tela cerata, avviate certo in uno dei tanti castelli del circondario dove gli alti gerarchi del Reich si diceva avessero stabilito il loro nido d’amore.
Riuscirono ugualmente a scavalcare la muraglia della caserma, in verità non eccessivamente alta. Salì prima Ernesta, sospinta da una mano di Albertina piantata nel fondoschiena. Al di là, nel tombino, mollarono le tute da lavoro e i cappotti militari. Sotto quegli odiosi pastrani avevano infilato qualche indumento personale. Ernesta aveva ricevuto un paio di scarpe da Camilla, la più intellettuale del gruppo di ostaggi. Camilla aveva promesso di rimanere lei vicina a Mary, una donna inglese ammalata.
Affondarono mezza caviglia nella neve fresca che ricopriva la terra dura. A capo chino, trattenendo il respiro, percorsero tutto il tombino fino alle rotaie della ferrovia. Si arrampicarono sul terrapieno afferrando con la mano una traversina incatramata. Traversarono il binario e si calarono fra le pietre scure fino al sentiero. Lì si fermarono abbracciandosi forte. Un raggio di luna colpì di striscio il volto di Alberta. Pareva una bambina, coi suoi vent’anni appena compiuti. Proprio tre giorni prima, la vigilia di Natale, accertatasi che il guardiano fosse distratto, aveva interrotto per un istante l’impacchettamento dei vestiti e aveva sussurrato all’amica con voce tremante: “Oggi è il mio compleanno. Sono nata a Natale del ’24... Ventiquattro per nascere, venti per morire. Natale ’44...”.
Sotto quel chiaro di luna Ernesta se la immaginò neonata ed implume, nel suo caldo presepio delle alpi bellunesi. Implume come la vedeva ora, spogliata del cappotto militare, il cranio rasato nascosto da un fazzoletto liso, i lineamenti tuttavia fanciulleschi ed intatti. “Ventiquattro per nascere, venti per vivere”, le bisbigliò in un orecchio. “Quarantaquattro come la libertà”.
Alla loro destra correva lunga la recinzione dell’ippodromo di Maia, immensa distesa bianca ed incolta, interrotta qua e là da una siepe e un cavalletto. Dall’altra la ferrovia. La strada sterrata costeggiava le rotaie. Seguirla fu una scommessa. Questa zona si presentava ad esse del tutto ignota. Finora non avevano conosciuto altro che il percorso che conduceva dal campo alla stazione, dalla stazione alle caserme, dalle caserme al lager.
Al sottocampo di Merano Ernesta era stata scaricata il 20 ottobre, con una ventina di altri deportati. Lo ricordava bene il giorno del suo arrivo, perché l’ambiente della caserma – che era stata della Guardia alla frontiera – le parve subito molto più vivibile di un qualsiasi altro campo di concentramento. Lo chiamavano campo di lavoro distaccato. Ne ricavò un’impressione gradevole, se tale aggettivo avesse un senso in quel contesto.
Quando si erano lasciati alle spalle il cancello del Durchgangslager di Bolzano, aveva temuto che dovesse toccare loro la sorte di altri internati politici. Le avevano trovata in casa, a Venezia, quella borsa da viaggio piena di carte d’identità e di documenti del comando tedesco. Tutto in bianco. A causa di queste carte i fascisti l’avevano trasferita alla competenza delle SS tedesche. Dopo una sbrigativa e risibile inquisitoria, era stata condannata ad un campo di concentramento di seconda categoria in Germania. Il 5 ottobre 1944, con altri ventidue prigionieri – la maggioranza appartenente al CLN veneto ed un capo militare paracadutato dagli alleati – era stata trasferita al DuLag di Bolzano. Quindici giorni dopo, l’inatteso passaggio a Merano.
Qui furono sistemate in camerate contigue all’ultimo piano della caserma. Dormivano sulle brandine abbandonate dai militari a loro volta internati chissà dove. Tre camerate da sei o otto persone, con tanto di servizi igienici, lavandini ed acqua corrente. Una sala per refettorio che dava sulla piazza d’armi e la cucina servita da mamma e figlia ebree. Il pasto di mezzogiorno costituito qualche rara volta da una pastasciutta, quasi sempre da una minestra di fecola di cereali o di legumi irriconoscibili, di tanto in tanto da una zuppa acida e da un pezzo di pane. Uno strano pane, per la verità: non era chiaro a nessuno di cosa fosse fatto. Tuttavia impararono a non farsi troppe domande e persino ad apprezzarlo, quel pane, nei momenti di digiuno forzato. Quando due donne sparirono misteriosamente dal campo, ad esempio, non fu dato loro da mangiare per tre giorni interi. E un’altra volta, allorché il soldato incaricato del magazzino dei viveri se ne andò per un permesso, essendosi egli trattenuto le chiavi, il tenente capocampo ordinò ridendo che non fosse distribuito il rancio fino al suo ritorno. Non fosse stato per il maresciallo l’avrebbero vista brutta. Il maresciallo era il loro angelo custode. Un pastore protestante che, incurante del disprezzo e del biasimo del tenente (“Tu bravo ufficiale per prigionieri, cattivo soldato per la Germania”), le difese sempre. Pagò di tasca sua, in un magazzino civile, le mele necessarie per placare la loro fame. Ai cinque uomini che in novembre furono spediti in Germania col solito sistema dei carri merce sigillati, consegnò buona parte dei suoi indumenti personali. Il capo mugugnò ma lo lasciò fare, forse perché il pastore, all’occorrenza, esibiva una medaglia d’oro guadagnata sul campo durante la campagna di Russia.
Fu la squisita bontà del maresciallo, pensava Ernesta, ad impedirle di considerare scioccamente quello tedesco un popolo senz’anima, interamente soggiogato alla follia del Führer e dei suoi tirapiedi. Questi ultimi, del resto, non erano più criminali degli italiani che l’avevano strappata ai venti autunnali della laguna. Erano solo più raffinati nella loro arte.
Di Merano aveva sentito fantasticheggiare nei cinegiornali. Dell’uva, dell’aria, delle acque termali. E dell’ippodromo, che ora, al di qua del muro di cinta, giaceva morto e sepolto dalla neve alla destra delle due ragazze. Merano per loro aveva voluto dire unicamente fatica, freddo e fame. Il lavoro si svolgeva durante tutte le ore di luce con un unico breve intervallo per il rancio. Erano divise in due squadre di facchine e di sarte. Le facchine erano adibite al trasporto a braccia o sulle spalle delle merci rubate o requisite in Italia. Il materiale condotto dai vagoni ai magazzini era costituito a volte da piastre o lingotti di zinco. Alla ferrovia spesso si caricavano su carri merce enormi pezze di formaggio parmigiano. Dal cortile alla soffitta della caserma ciascuno era tenuto a fare la spola con cassette di mele, di liquori ed altre cose di cui potevano captare, come nel caso dei pomi, null’altro che il profumo.
Le sarte ed i sarti richiudevano in sacchi di iuta grosse balle di vestiario: indumenti e tessuti di molto pregio o cappotti militari.
Tre volte al giorno veniva fatto l’appello nel cortile. Qualcuno sotto la tuta, per ripararsi dal freddo, oltre a una maglia, infilava fogli di carta d’imballaggio. Le donne indossavano indumenti trafugati mentre cucivano le balle dei vestiti. Anche Ernesta ne ebbe qualcuno per la premura e la scaltrezza di Erica, una delle prostitute che, merce pregiata, il tenente capocampo tratteneva per sé.
“Quarantaquattro come la libertà”, bisbigliò Ernesta ad occhi chiusi. All’improvviso Albertina non c’era più. La compagna ne scorse la sagoma più avanti. Correva spedita con la schiena ricurva ad evitare le luci fioche della notte. Prese a starle dietro, ad una certa distanza, e si cavò gli occhiali per non essere riconosciuta. Da chi, poi? Non c’era anima viva. Neve a chiazze, sterpaglie, la strada poco più di un tratturo che pian piano si allontanava dalla linea ferroviaria. La seguì fino ad un nucleo di case e ad un edificio dai vetri rotti che le parve a prima vista una chiesa sconsacrata. Sulla parete esterna una stella di Davide tracciata sgraziatamente con vernice nera.
Corri, Albertina, corri, pensò tra sé e sé appoggiandosi ad uno steccato di legno. E’ il tuo Natale, il tuo compleanno, la tua fuga vittoriosa verso la libertà, pensò ricordando il suo volto smarrito ed il suo capo ricoperto ancora di lunghi capelli scuri al momento dell’arrivo nel campo, poco più di un mese prima. Fin da quell’istante Albertina se ne era bellamente infischiata della regola d’oro che vige in ogni lager: non fidarsi di nessuno. “Chi non si fida, vive a metà”, disse. In pochi giorni Ernesta di lei sapeva tutto. Dell’arresto di suo cognato, “Milo”, capitano di fanteria messosi dalla parte dei ribelli. Catturato nell’aprile del 1944 e condannato a morte. Della sua successiva liberazione dal carcere di Baldenich presso Belluno in seguito ad un’incursione dei partigiani. Per rappresaglia, due giorni dopo, i tedeschi avevano preso in ostaggio la madre, la suocera ed Albertina. Le tre donne erano state dapprima rinchiuse nella prigione cittadina, poi trasferite a Bolzano e quindi a Bressanone. Qui le due più anziane furono messe in libertà per l’intervento provvidenziale di un avvocato. Sapere che la sua prigionia era il prezzo per la vita del cognato dava ad Albertina coraggio, persino serenità, soprattutto dopo la liberazione della mamma cardiopatica. Ma quando cominciò ad aver sentore che il campo meranese stesse per essere smobilitato ed i prigionieri destinati a chissà quale nuova o ultima tappa, il suo stato d’animo cambiò. Ora era agitata, pensierosa, indolente. Ernesta capì che era malata. Inizialmente la presero una strana febbre ed uno stato di malessere generale. Poi le si gonfiarono le gambe e le si arrossò il viso. I carcerieri ne furono impauriti. Temettero il contagio e disposero che fosse portata all’ospedale civico. Qui le fu diagnosticato un sospetto attacco di erisipela, infezione della pelle che può portare anche a conseguenze serie. Tuttavia non fu il suo caso ed è anche dubbio che Albertina soffrisse davvero di quella malattia, dal momento che, in pochi giorni, era di nuovo in salute, quando l’erisipela non guarisce normalmente se non dopo alcune settimane di cura.
Comunque sia, a conti fatti, le due amiche dovettero a quel gonfiore ed ai timori del tenente la loro libertà. Dalla sua stanza di ospedale, sorvegliata certo, ma non a sufficienza, Albertina riuscì a mettersi in contatto con Ivelia, una donna di origine bellunese che conosceva fin dall’infanzia. I medici del nosocomio, in particolare il dermatologo ed il primario, si prestarono all’inganno. Non ci volle molto, per loro, ad alterare la cartella clinica, a far perdurare quanto necessario lo stato febbrile e a disegnare sul suo volto i segni inequivocabili dell’infezione. Quando, ogni giorno alla stessa ora, cominciavano a sentirsi in fondo alle scale i passi pesanti della guardia incaricata di accertarsi delle condizioni di salute della ragazza, Albertina saltava nel letto e si mostrava sofferente.
Una domenica, complici i dottori, le riuscì perfino di uscire. Poté visitare una famiglia amica e predisporre ogni possibile dettaglio della fuga. Avrebbe potuto anche andarsene subito, indisturbata. Non lo fece, per non creare problemi ai due medici.
Passato lo steccato Ernesta scivolò lungo il muro di un grosso edificio e poi di un’altro, certamente un albergo. Un colosso di pietra anche alla sua destra, davanti il ponte. Inforcò per un attimo gli occhiali che aveva riposti nella tasca. Di là del fiume poté vedere, vagamente illuminato malgrado l’oscuramento, il teatro in stile liberty, la piazza, il centro urbano moderatamente animato. Ma allora, pensò, c’è davvero una città. Lo fece con un sentimento d’astio, colta come da una rabbia improvvisa, mentre infilava la mano tra la testa impietosamente rasata ed il fazzoletto. Che città è quella che non si accorge di noi, quella che respira, quando noi si soffoca, quella che vive quando noi si muore – fu questo il pensiero che la prese, mentre appoggiava la spalla alla corteccia rugosa di un cedro.
Ma poi sopraggiunse una donna, lei si sistemò il vestito e si diede un contegno il più possibile normale. Si fece coraggio e le chiese l’indicazione per la Reichsstraße. Questo, aveva detto Albertina, era il nome della via dove abitava Ivelia. La donna si mostrò gioviale e quasi rideva. Prima di rispondere esclamò: “Tutti vanno alla Reichsstraße questa sera!” Ernesta capì che anche Albertina si era rivolta alla stessa persona. Dopo pochi minuti raggiunse la compagna di fuga che si era fermata titubante a contemplare il portale di una chiesa gotica dalle apparenze accoglienti e modeste.
Percorsero lentamente la Reichsstraße, in modo da poter sentire le voci che filtravano dalle finestre chiuse. Scesero a lungo senza dire una parola. L’istinto era quello di tenersi per mano, atteggiamento che però avrebbe certo dato nell’occhio. Ernesta aveva ormai perso l’orientamento. Le pareva quasi che stessero tornando al loro punto di partenza. Albertina, invece, avanzava circospetta ma decisa. Ad un certo momento s’arrestò, guardò oltre una siepe e chiamò forte, facendo rabbrividire la compagna: “Ivelia!”
Seguirono alcuni attimi di totale silenzio, mentre intorno a loro ogni pur piccolo rumore era inghiottito dal buio, assorbito dalla neve come da una spugna umida. La porta si aprì cautamente. Era lei, Ivelia. Impaurita, le mani sulla bocca, le fece entrare. La donna ed il marito Luigi vollero sapere ogni cosa. Non si accese neppure la luce. Poi Luigi uscì improvvisamente di casa. Dopo mezz’ora era di ritorno, in mano le tute da lavoro ed i pastrani abbandonati, imprudentemente, nel fossato al di là del muro del lager.
“Se torno a casa mi faccio suora”, disse Ernesta presa dall’euforia. “Ernesta – fece Albertina –, se tutto andrà per il verso giusto, io voglio entrare di nuovo nel carcere di Belluno e portare un sorriso a quei ragazzi”. Il loro pensiero corse inevitabilmente a Camilla e a Mary. Dormirono abbracciate sul piccolo divano.
Era appena passata la notte ed era ancora scuro. Ivelia si presentò diversa dalla sera prima. Teneva in mano la sua lunga treccia quasi bionda. La diede ad Ernesta senza una parola e lei, sempre in silenzio, la fissò con un punto al suo fazzoletto.
“Sembrerai una di noi”, disse poi. Era vero: portava un paio di calzettoni bianchi fatti da sua madre con il filo di un copriletto di cotone ed un mantello da viaggio che era riuscita a tenere sempre nascosto dentro al cappotto militare. “Sono una di voi…”, fece con gli occhi umidi. Scesero in strada. Ripercorsero la Reichsstraße fino alla chiesa dal portale gotico. Ivelia consegnò Ernesta nelle mani di un giovane cappellano, don Primo, il quale seppe sistemarla nella casa di due signorine, mentre lui si preoccupò di organizzare il viaggio per Milano.
Le due donne la provvidero di qualche capo di biancheria, di parecchi bollini della tessera del pane e di una schiacciata di mele. Il prete le diede millecinquecento lire, tutto quello che aveva. Le ficcò nelle mani due pacchetti di sigarette, dicendole che sarebbero serviti per ottenere un passaggio di fortuna nei camion.
Circondata da tanto calore, Ernesta ripensò con un po’ di rimorso al momento in cui, in prossimità del ponte, addossata alla corteccia rugosa e fredda del cedro, aveva inveito contro Merano ed i suoi distratti abitanti.
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Nota.
Il racconto è fedelmente modellato sulla testimonianza di Ernesta Sonego e su alcuni elementi raccolti dalla sorella di Albertina, Lidia Brogliati.
Questo racconto è stato pubblicato sul volume
Paolo Bill Valente, La città sul confine, Milano 2006