La giusta distanza di Carlo Mazzacurati
Qualche giorno fa è morto il regista veneto Carlo Mazzacurati. Per chi non lo conosceva bene, come me, per chi cioè ne seguiva soltanto il lavoro e dunque aspettava con una certa noncuranza l'uscita dei suoi film, è stata un'amara sorpresa. Un altro lungometraggio ancora, uscirà prossimamente, e questo è già tutto.
Non sono un esperto di cinema, per cui non vorrei ricordare Mazzacurati citando la sua filmografia, soffermandomi sulle stazioni di una carriera che il comune cordoglio conferma di successo. Quello che vorrei dire è più semplice e sfuggente al contempo. Vorrei dire che alcuni suoi film mi sono piaciuti come saranno piaciuti alla maggior parte di coloro che li hanno visti. Addirittura, cerco di avvicinarmi alla sensazione che vorrei comunicare, alla maggior parte di coloro che li hanno visti senza neppure sapere o ricordare il nome del regista. “Ho visto un bel film, ieri sera, non ricordo il nome del regista”, è la frase che ho in testa. Ci sarà stato quindi per molti di noi un pomeriggio – io penso a un pomeriggio sul tardi, quando la luce del giorno sta per sfumare, e allora è buio all'uscita dal cinema – in cui abbiamo visto “La giusta distanza” o “L'amore ritrovato”, cito i suoi film che mi sono piaciuti di più, e siamo rimasti seduti per un'ora e mezzo con piacere, ricavando una soddisfazione familiare, come quando si scivola dentro una storia nella quale ci possiamo riconoscere, rispecchiarci, si diceva una volta, e che dunque serve anche un po' a capire la nostra. Non so se questa formula può risultare di qualche aiuto: un realismo del possibile, il suo. Personaggi, ambienti, accadimenti probabili, sempre all'altezza dello spettatore, della sua sensibilità. Ricerca e rispetto. Mestiere e pulizia (una parola quest'ultima, che mi è sempre venuta in mente, dopo aver visto uno dei suoi film).
Hanno detto: un poeta del Nord-Est. Effettivamente Mazzacurati capiva certe nebbie, certi argini di fiumi cancellati dalla nebbia, come se tante delle sue storie fossero evocate dal paesaggio in cui erano ambientate. Però è riuscito anche ad evocare la mia Livorno degli anni quaranta, per esempio, e le finestre che si aprono sulla luce, sui pini e sul mare. Narratore di una provincia universale. Cronache locali. Drogherie di una volta (sì, quelle con la porta aperta davanti alla primavera) e la questione dei nuovi cittadini, gli “immigrati”.
Voglio infine citare due sequenze. La prima, tratta da “Vesna va veloce”, è una danza straniera sul mare, il lungo sguardo di Antonio Albanese che la contempla, il giorno che sorge. La seconda, tratta da “La giusta distanza”, parla della regola del giornalista, che non deva mai stare troppo lontano dai fatti raccontati (che altrimenti si perde il pathos), ma neppure troppo vicino, cioè immedesimandosi col destino dei protagonisti. La giusta distanza, appunto. Ciao, Carlo.