Una mattina mi son svegliato...

Il libro, innanzitutto. Un centinaio di pagine nelle quali lo storico trentino Vincenzo Calì ha raccolto, per i tipi dell'editrice TEMI, le testimonianze di tre personaggi centrali nella vicenda della resistenza in Trentino Alto Adige. I personaggi sono Andrea Mascagni, Giovanni Gozzer e Enrico Luigi Serra, dei quali Calì ripropone le riflessioni su quanto avvenuto in quei tragici mesi tra il 1943 e il 1945. Il libro si completa con altri documenti, di cui diremo più oltre, con le schede biografiche relative ai tre personaggi e con un'interessante bibliografia che resta a disposizione di studenti, studiosi e persone interessate che volessero approfondire l'argomento.
Una lettura sicuramente da consigliare, dunque, nell'approssimarsi del settantesimo anniversario della fine della guerra e di una 'liberazione' che, in Alto Adige soprattutto, continua ad essere vissuta con sentimenti e atteggiamenti contrastanti quando non ambigui.
Delle tre personalità che il volume di Calì pone sotto i riflettori quella sicuramente più nota è nato è quella di Andrea Mascagni. Cresciuto nella Bolzano fascista, matura giovanissimo sentimenti di totale rifiuto delle dittature e, durante il periodo della resistenza, partecipa con il nome di battaglia di Giovanni Corsi ad operazioni militari soprattutto nella zona della Val di Fiemme, mantenendo i rapporti con i centri antifascisti di Trento e Bolzano. Nel dopoguerra il suo impegno politico si esprime nella militanza comunista in un'intransigente difesa, anche dai banchi del Senato, dei diritti e delle aspirazioni delle minoranze tedesca e ladina.
Giovanni Gozzer, insegnante nel periodo bellico presso il liceo Prati di Trento è presidente del comitato di liberazione nazionale del 1945. Enrico Luigi Serra è protagonista dei tentativi, non di rado coronati da successo, di far fuggire qualche prigioniero dal terribile campo di transito di via Resia a Bolzano.
Tre figure di grande spessore, le cui testimonianze, non di rado strappate con fatica ad un riserbo che anche il frutto di grande modestia, contribuiscono ad illuminare ulteriormente le vicende di una stagione tragica con la quale, evidentemente, chi vive in Alto Adige non ha ancora imparato a fare i conti in maniera compiuta.
È una considerazione che è emersa, purtroppo, anche l'altra sera a Bolzano, nella sala del teatro Cristallo, dove il libro di Vincenzo Calì è stato presentato su iniziativa della biblioteca Claudia Augusta. Oltre all'autore ha preso la parola, tra gli altri, anche il presidente altoatesino dell'ANPI Orfeo Donatini, che ha dato tra l'altro notizia di un progetto dell'associazione per ricreare in modo virtuale l'immagine di quel campo di concentramento di via Resia che per tanti anni, dopo la guerra, è stato quasi cancellato dalla memoria e dalla coscienza della città.
Il fatto è che nel libro, tra gli altri documenti, è riportato anche quel programma del CLN di Trento steso, nel febbraio del 1944, da Gianantonio Manci e nel quale è netto profumo il richiamo a un ideale di governo democratico fondato sul decentramento e sulle autonomie. L'uomo che scriveva queste parole fu arrestato grazie ad un delatore, condotto a Bolzano, torturato sino ai limiti estremi della sopportazione umana e poi ucciso.
Sì, ucciso e non suicida per paura di non resistere e tradire i compagni come vuole la versione storica generalmente tramandata e che ha origini nelle affermazioni degli stessi barbari torturatori nazisti. Che ci sia un'altra verità lo ha confermato, l'altra sera, durante il dibattito, il procuratore militare Bartolomeo Costantini, noto per aver istruito e portato a termine il processo contro il "boia di Bolzano" Misha Seifert. Dalle carte raccolte proprio in relazione a quel processo, emerge un'informativa dei carabinieri che, contraddicendo la versione ufficiale, conferma che Manci fu "suicidato" dai suoi torturatori, probabilmente per nasconderne la morte violenta intervenuta durante i bestiali interrogatori cui era sottoposto nei sotterranei del Corpo d'armata di Bolzano.
È un particolare nuovo, interessante ma che in fondo nulla toglie e nulla aggiunge al valore e all'esempio della figura di Manci. Anche se di suicidio si fosse trattato, sarebbe stato un atto nobilissimo, compiuto per mettere al servizio l'estremo sacrificio della sicurezza e della vita degli altri cospiratori.
Sarebbe stato bello avere tra il pubblico, l'altra sera, quei politici comunali, non pochi, che qualche giorno prima si erano defilati al momento di votare la delibera con la quale il consiglio, a questo punto con una maggioranza abbastanza risicata, ha attribuito a Gianantonio Manci la cittadinanza onoraria di Bolzano.
C'è stato perfino un voto contrario, motivato proprio con delle perplessità morali sull'istituto del suicidio. Uno che almeno avuto il coraggio di esporre le proprie opinioni, ancorché aberranti nel caso di specie. Gli altri se la sono filata dall'aula alla chetichella con qualche considerazione, espressa a bassa voce, sul fatto che di "certe cose" sarebbe ora di non parlare più. Atteggiamenti che fanno il paio con le assenze più che illustri alla cerimonia di inaugurazione del percorso espositivo sotto il monumento alla Vittoria di Bolzano e con tante altre prese di posizione in anni più o meno recenti.
Sono atteggiamenti ancor più gravi perché vengono da rappresentanti politici eletti. Per settant'anni a Bolzano, in nome di chissà quale pacificazione, si è preferito spendere una cortina di oblio su fatti, sentimenti e idee di quel terribile periodo. Chi sperava in questo modo si potesse arrivare ad un superamento di quei drammi attraverso la formazione di una coscienza nuova, dovrebbe oggi dichiararsi amaramente sconfitto. Forse è il caso di cambiare strategia: cominciare a sollevare quel velo e a tirar fuori senza misericordia per nessuno tutti gli scheletri che affollano gli armadi della nostra terra.