Società | #Multilingual

L'azione rivoluzionaria del linguaggio

Con la trasformazione della società anche la lingua diventa promotrice di cambiamento, riconoscendo generi e minoranze. L'intervista alla sociolinguista Vera Gheno.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: (c) Privat

Da qualche anno si sente parlare degli esperimenti che la lingua italiana, e non solo, sta compiendo per rappresentare tutte le minoranze. Un dibattito spesso esacerbato, polarizzato su posizioni antitetiche, che a volte sembrano non voler riconoscere il cambiamento, ormai visibile, nella società. La lingua infatti rappresenta il principale veicolo per esprimere idee e concetti, plasma il mondo in cui viviamo e in cui ci rapportiamo. Dare ascolto alle minoranze che richiedono un linguaggio più inclusivo significa renderle parte della società e dare effettività al cambiamento. Ne parliamo con Vera Gheno, sociolinguista, scrittrice e professoressa di linguistica e di italiano scritto all’Università degli studi di Firenze. 

Salto.bz: Professoressa Gheno, da qualche tempo la discussione sul linguaggio inclusivo è arrivata a coinvolgere anche una parte più grande dell’opinione pubblica. I diversi tentativi prevedono l’uso dell’asterisco, la X…fino ad arrivare al tanto contestato schwa, che negli ultimi tempi sembra essere l’opzione preferita. Qual è stato il suo percorso? 

Vera Gheno: Bisogna innanzitutto ricordare che il discorso sullo schwa (ə) riguarda l’identità di genere e la sua manifestazione. Il genere può non corrispondere al sesso biologico: se per le persone cisgender è possibile riconoscersi nel sesso che è stato assegnato loro alla nascita, per quelle transgender non è così. Il termine transgender racchiude poi molte definizioni, non ci sono solo le persone trans, ma anche le agender, gender fluid, non binary…e queste persone possono sentirsi non rappresentate dalla logica che prevede solamente il maschile e il femminile. Proprio per dar loro voce si susseguono da tempo diversi esperimenti linguistici, che solamente da poco sono arrivati al grande pubblico, ma da almeno una decina d’anni nei contesti più sensibili a questi temi, come per esempio nei collettivi transfemministi o negli ambienti LGBT+, si ragiona sui limiti dell’italiano, che è una lingua essenzialmente binaria. Ci sono state diverse proposte, tra cui quella dello schwa, simbolo presente nelle lingue indoeuropee che indica una vocale intermedia e che si pronuncia con la bocca a riposo, senza deformarla come avviene per le altre vocali. Parliamo quindi di una delle alternative, che sta avendo un certo successo nel mondo dell’editoria, ma non c’è ancora un modo univoco per indicare le desinenze non binarie. 

Lo schwa si usava già dal 2015, un esempio è il sito inclusivo di Luca Boschetto ma, in seguito a degli articoli, me ne è stata attribuita la maternità

Il dibattito è però molto acceso. La parte più conservatrice della società afferma che il cambiamento non può essere imposto dall’alto, ma si può davvero parlare d’imposizione?

Ci sono molti problemi nel frame narrativo. Da un lato si susseguono dei tentativi per sminuire coloro che portano avanti queste istanze, è successo anche a me. Lo schwa si usava già dal 2015, un esempio è il sito inclusivo di Luca Boschetto ma, in seguito a degli articoli, me ne è stata attribuita la maternità. Quest’operazione ha permesso d’individuare l’inventrice da sminuire, da denigrare e da mettere all’angolo in quanto pazza o visionaria. Dall’altro ritorna il tema dell’imposizione e dell’artificiosità di certe operazioni linguistiche, posizione purtroppo sposata anche da alcuni miei colleghi. Non si può però parlare di esperimenti da laboratorio, la lingua si evolve, cambia e segue la società, che oggi, fortunatamente, sembra più recettiva verso le istanze di queste minoranze. Penso che poi sia difficile individuare gli autori di queste imposizioni, a meno che non si pensi all’ipotesi ridicola del complotto della "lobby gay".

Il termine "inclusione" rimane però una definizione problematica...

L’esclusione di alcune categorie è purtroppo, ad oggi, inevitabile. Tutte le società sono escludenti verso diversi gruppi: non ci si riferisce solo alla manifestazione del genere, ma anche alla disabilità, alla povertà, alla neurodiversità. Il termine "inclusività" è problematico in quanto delinea una divisione tra coloro che includono e coloro che devono essere inclusi, secondo delle caratteristiche di normalità prestabilite. Una delle definizioni più adatte potrebbe allora essere quella proposta da Fabrizio Acanfora: convivenza delle differenze. Il normocentrismo è ovunque, e molto spesso non ce ne accorgiamo, ma l’idea della convivenza delle differenze suggerisce che tuttə siamo diversə e tuttə possiamo vivere insieme per riprogettare un mondo che ancora non è a misura delle diversità. 

Chi dice di trascurare il linguaggio, perché i problemi sono altri, difficilmente si adopererà per concentrarsi su queste altre problematiche

Un’altra obiezione è quella volta a sminuire l’importanza del linguaggio, posto in secondo piano rispetto alle azioni. Perché non siamo stati abituatə a riflettere sulla centralità della parola? 

Non è strano che si faccia fatica a concentrarsi sul linguaggio, perché fin da piccoli si viene abituati allo studio della grammatica, ma senza alcun accenno alla linguistica o alla pragmatica. Non si coglie che i fatti e i progetti passano attraverso moltissime parole, manca un’educazione alla complessità, che permetta di vedere l’intreccio tra parola e società. Per quanto riguarda l’obiezione che continua a sminuire il cambiamento linguistico, perché ci sono cose più importanti, si può parlare del classico benaltrismo, che è essenzialmente una forma d’immobilità. Chi dice di trascurare il linguaggio, perché i problemi sono altri, difficilmente si adopererà per concentrarsi su queste altre problematiche. Ovvio che l’analisi e la trasformazione del linguaggio non bastano, ma per quale motivo bisogna fare una cosa alla volta?

Altro grande tema è quello dell’uso del femminile quando si parla di qualifiche e professioni, soprattutto a livello apicale, ma alcuni ribattono che la declinazione al femminile sia cacofonica e inusuale. Cosa si cela realmente dietro queste argomentazioni? 

Nascondono una mentalità patriarcale in una società che ne è lo specchio. Queste condizioni vanno bene a molti, perché riflettere su questi temi vuol dire farsi varie domande e ripensare i paradigmi ai quali siamo abituati. Questo non vuol dire che si debba abbandonare del tutto la tradizione, che invece può diventare una base sulla quale costruire. La cacofonia delle desinenze femminili è poi un’assoluta sciocchezza, noi usiamo le parole sulla base dei nostri bisogni e non su quella del loro suono, che ci piace in maniera completamente soggettiva, basti pensare alla scelta del nome per il proprio figlə: il nome che piace ad alcuni genitori può risultare terribile per altri. 

Come alternativa all’uso della desinenza, c'è chi suggerisce l’aggiunta del sostantivo "donna" accanto al termine declinato al maschile. Oltre al fatto che difficilmente accadrebbe a parti invertite possiamo davvero considerarla una soluzione? 

L’uso del sostantivo "donna" per accompagnare la qualifica (ad esempio un sindaco donna, un assessore donna, …) serve a rimarcare la differenza: l’automatismo prevede che ci sia un uomo in quelle posizioni e la donna che si trova  in quel momento a ricoprire quel ruolo è solo un’eccezione. I miei editori (la casa editrice Effequ) sono un uomo e una donna e si sono presentati ad una fiera con delle magliette su cui si poteva leggere Editor e Male Editor, proprio per ribaltare questo paradigma. 

I social network sono uno strumento molto utile e centrale oggi, ma possono rappresentare un rischio di semplificazione della lingua? 

È ancora difficile fare un bilancio sull’influenza dei social network sulla lingua. Per quanto dominino le immagini, soprattutto quelle in movimento, i social network hanno comunque riavvicinato molte persone alla scrittura, per quanto solamente digitata. Bisogna aspettare ancora per capirne appieno l’influenza, ma non bisogna seguire le narrazioni catastrofiche che li indicano come il male assoluto. Sicuramente l’eccesso provoca dei danni importanti, ma vale per tutti gli eccessi, e bisognerebbe applicare una dieta digitale, come affermato dallo scrittore Jake Reilly. 

L’esigenza di un’istruzione completa, che educhi alla complessità, rimane quindi centrale. Aggiungere lo studio della linguistica alla grammatica potrebbe rendere la società più reattiva e attenta al cambiamento?

Lo studio della linguistica aiuterebbe a comprendere la centralità della parola, ma la scuola sta attraversando da tempo una crisi. Fare l'educatorə è sempre più difficile, chi insegna nelle nostre scuole è meno pagatə rispetto al resto d’Europa, oltre ad essere obbligatə a convivere con una narrazione imponente che vede il mestiere dell’insegnante come un ruolo di ripiego. È poi interessante notare come si usi il termine "missione", per sottolineare le difficoltà di un contesto iper-burocratizzato in cui spesso le iniziative sono rimesse alla volontà del singolo. La formazione dellə docenti passa quindi in secondo piano e diventa difficile, ad oggi, pensare ad una rivoluzione che permetta di rivedere completamente il ruolo della scuola.  

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Gianguido Piani Sab, 01/29/2022 - 14:16

Le risposte dell'intervista sono in gran parte incomprensibili all'italiano medio che conosce e usa attivamente tra le 400 e le 1000 parole. E anche con parole conosciute un nuovo segno indoeuropeo ed estraneo all'italiano rende piu' difficile la comprensione dei testi. Cito dall'intervista: "il proprio figlə" figlo? figla? All'inizio non avevo capito e ho dovuto ricostruire mentalmente la parola. Perche' "il proprio" e non "ilile propx"? Gia' e' un problema studiare lingue straniere, crearsene di aggiuntivi per la lingua madre usata correntemente e' incomprensibile e nel migliore dei casi controproducente.
L'autrice (o preferisce farsi chiamare "autora" sul modello di "educatora") sarebbe disposta, se fosse formulato un corpus di nuove regole per una nuova grammatica, ad andare a un referendum popolare? E come si esprimerebbe per convincere i connazionali a votarlo? Se vuole crearsi benemerenze puo' iniziare col proporre una traduzione in italiano comprensibile delle leggi votate dal Parlamento. Quella si' che sarebbe una riforma necessaria.
Anch'io mi sento discriminato da una grammatica che non prevede l'inclusione esplicita dei soggetti il cui nome proprio inizia per "G", indipendentemente dal fatto che siano F/M/X/Poli/anti/alato/forse/sopra/sotto e chissa' quant'altro. L'uso di "tutti" non mi convince, mi sento escluso. Mi sa che dovro' farmene una ragione.

Sab, 01/29/2022 - 14:16 Collegamento permanente