Cronaca | L'esodo

Il destino dei cristiani di Mosul

L’Iraq non li vuole e la Giordania, invece, li accoglie senza riserve: la ricostruzione del quotidiano “New York Times”.

Maythim Najib, 37 anni, è stato rapito e accoltellato 12 volte. Radwan Shamra, 35, ha continuato a sperare di poter sopravvivere alla guerra settaria fra sciiti e sunniti anche dopo aver perso due amici, uccisi da un cecchino. Un 74enne, troppo spaventato per poter dichiarare il proprio nome, nel 2007 ha trascorso tre giorni nell’angoscia di sapere se il figlio 17enne rapito sarebbe tornato a casa vivo.
Eppure, malgrado le contingenze, nessuno dei tre cristiani ha mai lasciato Mosul. Fino a oggi. Dopo aver preso la città nel giugno scorso, infatti, l’Isis non ha lasciato loro scelta: convertitevi subito e pagate un dazio altrimenti morite. “Abbiamo aspettato il più a lungo possibile – ha dichiarato Shamra, uno dei 4.000 cristiani iracheni di Mosul giunti in Giordania negli ultimi tre mesi -, finché non abbiamo capito che se fossimo rimasti non avremmo avuto scampo”.

L’esodo, diretta conseguenza di una ligia intolleranza religiosa, ha destato grande preoccupazione nella comunità cristiana mondiale (Papa incluso) e ha catalizzato l’attenzione di re Abdullah II di Giordania, un forte alleato degli USA che negli ultimi anni ha fatto della convivenza interreligiosa nel Medio Oriente una personale missione.

La Giordania ha dunque aperto le sue frontiere per accogliere i rifugiati (con il supporto della Caritas e delle donazioni spontanee) una mossa tanto umanitaria quanto strategica, secondo l’analista politico Hasan Abu Hanieh, paradigma di un paese da un parte in costante tensione per la presenza dei militanti islamici che spingono sul confine e la volontà impellente di mantenere vivi i rapporti con l’Occidente.
Finora sono circa 500 i cristiani accolti e dislocati in sette chiese ad Amman e nella vicina Zarqa. Le condizioni in cui vivono sono al limite della precarietà, ma sono salvi e relativamente fortunati, riferiscono le associazioni umanitarie.

Come i circa 620.000 siriani e gli altri 30.000 iracheni rifugiati in Giordania, gli ultimi arrivati non hanno il permesso di lavorare – a sottolineare la provvisorietà della loro permanenza – perciò, per passare il tempo gli uomini giocano a backgammon, bevono il tè, danno una mano nella scuola della chiesa; mentre le donne si prendono cura dei bambini e aiutano a preparare da mangiare.

Saif Jebrita, un fotografo di Mosul, ha capito che era il momento di lasciare la sua terra quando il giorno dopo l’insediamento dell’Isis è andato ad aprire il suo negozio e ha trovato un’ingiunzione che gli intimava di abbandonare la professione perché “le immagini - a detta del gruppo terroristico – sono contro l’Islam”. “La cultura araba è parte di noi – afferma ora Jebrita dalla Giordania – siamo cittadini iracheni. Dove dovremmo mai tornare? Non abbiamo più una casa, e se continua così, non avremo più nemmeno un paese”.