Società | Emarginazione

The In-visible Men

Chi sono, come vivono e perché non ci accorgiamo di loro.

Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionano Edgard Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre ed umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera, io mi trovo come circondato da specchi deformati di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me”.

Scriveva Ralph Ellison quasi cinquant'anni fa ne “l’Uomo invisibile”.
Una condizione quella descritta dallo scrittore afroamericano che contiene le molteplici sfumature della diversità e della minoranza: dal tossicodipendente alla sex worker, dal “malato mentale” all’immigrato. Tutti "invisibili" che abitano la strada, e che dalla strada stessa vengono respinti con il freddo, la rabbia collettiva, la severità delle divise. Altri si chiamano homeless, clochard, barboni quando si antepone quella nota imbottita di spregio che non tiene conto del fatto che molti di loro incarnano storie non così distanti dalle nostre; vivere in strada è una scelta per alcuni e una violenza forzata, una non-scelta disperata, per tutti gli altri. La consistenza fantasmatica di alcuni esseri umani rispetto ad altri, la parodia di un’uguaglianza di valore che esiste sulla carta ma che nella vita reale non è contemplata e assorbe ogni genere di dissomiglianza.

L’era del consumismo – filtrata attraverso una prospettiva prettamente macrosociale – genera un esercito la cui visibilità è fondamentale per la sopravvivenza comunitaria, dove le qualità soggettive vengono riconosciute lungo la linea quantitativa del possesso di quegli oggetti simbolo che determinano lo status sociale, con le tecnologie che deformano la abilità relazionali degli individui scoraggiando l’unicità del confronto squisitamente umano. Questo meccanismo consumistico preclude ancor di più ogni possibilità di dialogo con l’alterità, con chi dalla strada ci vede ma con noi non comunica perché non tributario di quei codici linguistici, di quelle modalità interattive, perché non ha le griglie di lettura per avvicinarsi di nuovo ad un mondo che lo ha espulso dalla dimensione della visibilità.

Eppure è il consumismo stesso che genera le dicotomie di inclusione ed esclusione, tra chi è nel club e chi è fuori; gli homeless, del resto, sanno soprattutto cosa non sono: cittadini legittimi di un mondo tollerante. Ancora più inquietante è la pratica dello “zoning” - applicata anche a una serie di altre minoranze (dagli omosessuali alle prostitute) - che rinchiude in una zona, una strada, un quartiere tutte quelle persone che condividono uno stato sociale sgradito, che sono “scomode” agli occhi. La strada, allora, risponde auto-organizzandosi con le mense, gli alloggi temporanei, gli aiuti di qualunque tipo, nella maggior parte dei casi elargiti da volontari, spesso unico ancoraggio visibile nel raggio di chilometri. I senzatetto vivono quindi una dimensione di doppia violenza: sul piano individuale sopportando un’esistenza che non ha concesso possibilità per una sopravvivenza dignitosa o una risoluzione alla sofferenza; e sul piano statale dove non ricevono ascolto né un’occasione di riscatto.

Una frase scritta col gesso su una colonna di ferro nella stazione di Milano Centrale recita: “Sono l’invisibile è vero, ma io vi vedo tirare il vostro trolley così pieno, e voi così vuoti”. Un noto violinista, Joshua Bell, tempo fa si è messo a suonare alla stazione della metro di Washington per circa 45 minuti fra l’indifferenza dei passanti, la bellezza di un talento riconosciuto su scala mondiale che passa inosservata quando investita dello status di invisibilità. Tutti argomenti, questi, che, lanciati nel circuito dell’obbligo ritualistico da area festiva, dopo il cenone, i regali, le tredicesime attese, sarebbe bello recuperare quando le luci, i colori e i festoni torneranno nel loro pigro letargo di cartone.