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Da Gaza ai Balcani

Un incontro a Bolzano per dare voce a Gaza, alla rotta balcanica dei migranti e a chi subisce la violenza dei confini. Un appello collettivo alla responsabilità e alla giustizia globale e una riflessione sul ruolo della società occidentale.
Striscione per Gaza "fermiamo il massacro del popolo palestinese"
Foto: Salto
  • “Fermiamo il massacro del popolo palestinese”: questo il messaggio scritto su un lenzuolo al centro di piazza Nikoletti, a Bolzano, sabato 24 maggio. Intorno, vecchie scarpe sparse e lenzuoli bianchi stesi a terra e appesi lungo le vie di Oltrisarco.

     

    Chiamare le cose col loro nome è l’unico modo per affrontare anche le paure e gli orrori reali.

     

    Sui social, da settimane, circola una frase ricorrente:l’ultimo giorno di Gaza”. Non è una previsione, ma un grido di allarme. Un’intera popolazione è allo stremo dopo oltre un anno e mezzo di assedio, bombardamenti, privazioni – una condizione che i diversi relatori, nel corso dell’evento, non hanno esitato a definire genocidio. Chiamarlo così, è un atto necessario. Chiamare le cose col loro nome è l’unico modo per affrontare anche le paure e gli orrori reali. Qualcuno poi potrebbe obiettare che, dalla sicurezza delle nostre case europee, non sia auspicabile parlare di “ultimo giorno di Gaza”, come se fosse il nostro bollettino di guerra definitivo. Gaza e i gazawi resistono, come hanno sempre fatto e sono lì per restare. Ma a quale prezzo e a quali condizioni?

    Queste sono domande e questioni che all’interno della sala Rosenbach della biblioteca comunale di Oltrisarco hanno risuonato nel pubblico, attraverso incontri, testimonianze e collegamenti. L’evento è stato organizzato da Assemblea per la Palestina, Collettivo Italia Centro America, Radio Tandem, Pax Christi, Amnesty International, Biblioteca Culture dal Mondo e Alto Adige Pride Südtirol.

  • Foto: Salto
  • Subito fuori dalla sala, appena entrati, uno spazio allestito con fotografie, dati, testimonianze e scritti accoglie i partecipanti. Le storie che si leggono sono pesanti, sono voci di chi ha vissuto o vive ancora a Gaza: giornalisti, medici, attivisti, cittadini. Anche quelli che non ci sono più.

    C’è la storia del dottor Hussam Abu Safiya, che si è incamminato da solo tra le macerie verso un carro armato israeliano che assediava l’ospedale Kamal Adwan a Beit Lahya. Quella di Shaden Qous, attivista e studentessa palestinese arrestata da Israele il 6 gennaio - e fortunatamente rilasciata qualche mese dopo. E quella di Hossam Shabat, reporter ventitreenne di Al Jazeera, ucciso a marzo 2025 durante un bombardamento. L’IDF ha confermato di averlo colpito deliberatamente, accusandolo di legami con Hamas, senza fornirne però le prove quando sono state richieste.

  • Foto: Salto
  • "In mezzo c'è the border"

    Pochi nomi tra decine di migliaia di cui sappiamo poco e niente.

    Tra gli interventi della giornata, uno spazio è stato dedicato alla presentazione del libro In mezzo c’è the border, racconto, testimonianza e riflessione politica di Silvia, attivista dell’International Solidarity Movement e docente universitaria a Bologna. Durante il suo intervento, Silvia ha scelto di non citare il proprio cognome, rifiutando l’istituzionalità come strumento di legittimazione e rivendicando l’uso di una sola maiuscola, quella della parola “Palestina”.

     

    Chi decide chi ha diritto all’asilo e chi no? Chi decide chi sarà clandestino e chi no?

     

    Il suo discorso – e il testo del libro – è stato presentato come una presa di posizione netta, ma anche come una presa di coscienza sulla natura dei confini, sull’arbitrarietà delle leggi e delle dinamiche internazionali, sull’asimmetria tra chi può raccontare e in qualche modo pulirsi la coscienza e chi invece è costretto a subire.

    Uno dei passaggi più forti dell’intervento riguarda la distinzione tra “rifugiati politici” e “migranti economici”. Chi decide chi ha diritto all’asilo e chi no? Chi decide chi sarà clandestino e chi no? A stabilirlo, viene spiegato, sono parametri costruiti dai paesi europei, spesso con criteri sbilanciati che non tengono conto di diverse situazioni nei paesi di origine. Come si fa a stabilire che è legittimo scappare da un conflitto ma non è legittimo scappare da una situazione economica svantaggiata in cerca di una vita migliore?

     

    Perché alcuni possono viaggiare liberamente con documenti e costosi passaporti, mentre altri rischiano la vita attraversando il mare o le montagne?

     

    Nel corso della presentazione, viene citato James Baldwin, scrittore afroamericano statunitense, il quale sosteneva che l’identità bianca fosse una costruzione fragile, fondata sulla paura più che sulla superiorità, e su una sistematica rimozione e incapacità di affrontare le proprie responsabilità storiche. Meglio raccontarsi come i buoni, che guardare negli occhi chi paga ancora oggi il prezzo delle nostre scelte politiche, economiche e culturali.

    Un altro punto toccato è quello del diritto alla mobilità. Viene posta una domanda: perché alcuni possono viaggiare liberamente con documenti e costosi passaporti, mentre altri rischiano la vita attraversando il mare o le montagne? La riflessione prosegue con la storia di due bambini palestinesi, Ahmed e Ibrahim, che Silvia ha conosciuto e che sono stati costretti ad affrontare la cosiddetta “rotta balcanica”.

  • Foto: Salto
  • The Game

    Una rotta che al momento è quasi invisibile nel dibattito pubblico, perché spesso immaginiamo che le persone migranti vengano tutte dal mare. Ma poco più a est dei nostri confini, alle porte del nostro Paese, si consuma un percorso semi sepolto fatto di torture, respingimenti, violenze. In gergo a volte questa rotta la chiamano “donkey”, ossia asino, per rendere l’idea della fatica. Ma anche “the game”, gioco, per la natura paradossale e crudele del viaggio. Un grottesco “gioco dell’oca” dove può succedere di arrivare al confine e di essere respinti alla frontiera, dover tornare indietro di tre caselle, rinchiusi in centri di detenzione o persino incarcerati.

    Vale la pena raccontare quando si parla del “game”, che è stato addirittura sviluppato un videogioco “The Game – La Rotta Balcanica”, che racconta la storia di un migrante afghano in viaggio dalla Bosnia verso l’Europa. Il gioco, scaricabile gratuitamente, permette di immedesimarsi nella difficile esperienza del viaggio migratorio, affrontando le stesse scelte drammatiche che molti sono costretti a fare ogni giorno nella vita reale.

     

    Migranti vengono respinti su gommoni senza motore e abbandonati in mare aperto, senza possibilità di presentare richiesta d’asilo.

     

    Prosegue il dibattito sui confini intesi non solo come linee geografiche. Confini intesi come dispositivi mobili, che si spostano, si insinuano nei quartieri delle città, nella mentalità delle persone, nei CPR, nei tribunali che decidono la sorte di chi è senza documenti. A Lesbo, Silvia ha assistito personalmente alla pratica del “pushback”: migranti che, appena approdati via mare, vengono respinti su gommoni senza motore e abbandonati in mare aperto, senza possibilità di presentare richiesta d’asilo. Una pratica denunciata da diverse ONG come illegale e disumana, ma ugualmente praticata e in parte, finanziata anche da fondi europei.

  • Si è parlato anche del ruolo di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere. Un apparato nato in Europa, ma che sul campo agisce attraverso singoli individui – militari o agenti – che possono comportarsi in modo arbitrario, come preferiscono. Un giorno possono aiutarti, l’altro respingerti, spesso senza controlli ufficiali.

     

    Ancora una volta, sarà l’Occidente a stabilire dove, come e con quali regole.

     

    Il discorso ha infine fatto emergere la connessione tra questi meccanismi e la situazione in Palestina. Una volta che il conflitto finirà – viene detto – chi sopravviverà avrà bisogno di una casa. Ma, ancora una volta, sarà l’Occidente a stabilire dove, come e con quali regole. Così come è stato l’Occidente a decidere che quella terra, che si chiamava Palestina, dal 1948 dovesse chiamarsi Israele.

    Questo porta a una riflessione più ampia ed inevitabile sulla complessità della macchina all’interno della quale viviamo. Una macchina che ha regole e che deve averle, per forza, ma le cui regole sono arbitrarie e spesso ingiuste, perché non sono regole condivise; sono regole create e imposte da una sola delle due parti che partecipano al “gioco”, al game appunto. Un gioco in cui da un lato c'è la difesa dei "valori occidentali” fatti di tradizione, ordine, decoro. Dall'altro ci sono vite ai margini, al confine appunto, di persone reali che per puro caso si trovano ad essere nate dalla parte “sbagliata” del globo. Sbagliata secondo noi, ovviamente.

    Questi incontri non hanno solo l’obiettivo di fare informazione, ma anche quello di stimolare una coscienza collettiva. A partire da una domanda fondamentale: “È giusto?”.

  • Prossimi appuntamenti contro il genocidio:

    • Ogni venerdì, dalle 18:00 alle 18:15, in piazza del Grano: raccolta simbolica di scarpe usate in solidarietà con le vittime civili del conflitto.
    • Domenica 2 giugno, ore 9:00, piazza Domenicani: corteo antimilitarista per denunciare le collaborazioni tra l’industria bellica italiana e quelle israeliana e statunitense.
  • Foto: Foto presa dal gruppo Telegram, Free Palestine BZ