Cultura | L'analfabetismo

L'abalfabetismo funzionale

Un cittadino su tre è analfabeta funzionale
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
  • Il primo campanello d’allarme era venuto nientemeno che dal Sovrintendente scolastico dott. Giuseppe Rizza. In una intervista del 14 dicembre dell’anno scorso affermava: “Da una recente indagine Piacc-Ocse sulle competenze degli adulti con un’età compresa tra i 16 e i 65 anni è emerso che un trentino su quattro è analfabeta funzionale cioè non riesce a comprendere un articolo di giornale, a fare semplici calcoli matematici e a distinguere le notizie false da quelle vere”. 

    Di fronte a una siffatta calamità era ovvio aspettarsi dalle autorità scolastiche una reazione adeguata, l’avvio di una cura vigorosa. È successo l’esatto contrario: invece di un’azione tesa a rinvigorire le capacità cognitive dei ragazzi (linguitiche/lessicali e matematiche) si è preferito continuare a potenziare quelle emotive (“disconnessione”, “FaBER”, “educazione affettiva”, ecc.).

    È dovuto trascorrere un anno prima che un altro responsabile, il dott. Maurizio Freschi riconoscesse la gravità di quell’allarme. In “Analfabetismo funzionale, emergenza del presente” (5/11) spiega con esemplificazioni didattiche il fenomeno: “Quasi nessuno oggi legge davvero fino in fondo un testo o un articolo; si è disimparata la lentezza, si confonde la fretta con l’intelligenza, lo scrolling con la conoscenza; si discute per schieramento e non per argomento; non si trova più il tempo di approfondire ma sempre quello per commentare, spesso senza cognizione di causa, insomma un ‘limite’ che impedisce di affrontare correttamente la realtà”.

    A leggere le tante e ingarbugliate spiegazioni che gli stessi coniatori del termine hanno dato dell’analfabetismo funzionale (contagiati pure loro?) non è facile capirne appieno il significato, tuttavia una cosa si evince con certezza: la sua causa scatenante è da imputarsi alla generale mancanza di “capacità critica”, l’abilità cioè di “analizzare le informazioni in modo oggettivo e razionale, valutando fatti, argomentazioni e credenze senza farsi influenzare da pregiudizi, dicerie, opinioni comuni così da addivenire a conclusioni oggettive”. Non è proprio la carenza di questa abilità che intendeva il dott. Freschi nel descrivere l’attuale inadeguatezza intellettiva? E la scuola, l’istituzione eminentemente deputata a promuoverla e salvaguardarla, cosa fa? Si occupa di “educazione affettiva”! Errore, indifferenza, secondo fine, chissà? 

    È da rimarcare il fatto che l’esercizio per acquisire la capacità critica necessita di una applicazione così attenta, consapevole e responsabile delle proprie dotazioni intellettive e sensibili da coinvolgere non solo l’intelligenza cognitiva ma anche quella emotiva. È un’esperienza che lascia il segno, che fa maturare la mente (volitività, concentrazione, tenacia) e il corpo (atteggiamenti, reazioni, posture). Il giovane, in questa crescita critica, necessita del confronto con un adulto che lo corregga con realismo e obiettività, senza sdolcinature o pietismi. Se un ragazzo affligge il suo prossimo e – come oggi succede – non viene adeguatamente punito (prevenire non punire è la massima), non prova cioè direttamente sulla sua persona l’afflizione che ha inferto, come può formarsi un’idea critica, realistica del male commesso, del male in sé? Se – come oggi succede – ottiene del proprio elaborato culturale valutazioni sopravvalutate rispetto alle sue effettive capacità (diplomi che sono un falso in atto pubblico), come può formarsi un’idea critica, realistica della sua preparazione, delle sue potenzialità, del conoscere in sé, di se stesso?  

    Ben strana è questa moda di voler educare alle emozioni come attività separata o propedeutica all’apprendimento degli altri saperi: non è un accessorio, è sua parte integrante: nulla è più efficace per riconoscere le proprie passioni che immergersi in quelle dei grandi (Omero, Virgilio, Dante, ecc.); nulla per sviluppare le proprie capacità di concentrazione e affrontare le frustrazioni e i disagi, che trascorrere il pomeriggio a prepararsi con l’ansia dell’insuccesso per la verifica del giorno dopo; nulla per imparare a gestire le proprie emozioni, conoscere se stessi, le proprie capacità e i propri limiti che affrontare un’interrogazione orale (quella approfondita di un tempo: vera radiografia della mente) con i compagni di classe che fanno da uditori.

    Una nota di speranza potrebbe venire dal recente viaggio di studio dell’assessora Gerosa in Finlandia: “Quattro giorni nel ‘paradiso’ della scuola”. La sua reticenza nel darne alla stampa il resoconto è di buon auspicio: deve aver capito che lì il metodo trentino di “recupero debiti scolatici” verrebbe bocciato subito. La nomea di scuola che ha inventato l’apprendimento “agevole” – “Né voti né bocciature fino ai 13 anni di età, ma eccelle in tutte le prove OCSE-PISA” scrivono le agenzie (pubblicitarie?) – è solo uno specchietto per le allodole: suo punto di forza – come è ovvio che sia – è l’esatto contrario, la selettività, fra le più elevate d’Europa! La prova? le percentuali di frequenza ai diversi corsi scolastici: solo il 46% dei giovani è iscritto nell’indirizzo liceale, il 54% affluisce nelle scuole professionali. In Italia, la percentuale di iscritti alla scuola professionale non supera il 17%.