Politica | violenza di genere

La Legge che non serve alle donne

Per l’assessora Waltraud Deeg è già un successo, per i centri antiviolenza rimasti inascoltati una norma distante dalla realtà: “Gli ostacoli vanno rimossi non aggiunti”.

L’entusiasmo che l’ha preceduto è da considerare secondo solo al risalto mediatico che l’ha accompagnato. Il nuovo Disegno di Legge “Interventi di prevenzione e contrasto della violenza di genere e di sostegno alle donne e ai loro figli e figlie” voluto fortemente dall’assessora alle Politiche Sociali Waltraud Deeg è stato approvato i giorni scorsi e con convinzione dalla Giunta provinciale guidata dal presidente Arno Kompatscher. Chi la propone parla di riforme importanti che andranno a rafforzare i servizi esistenti e ad aggiungerne di nuovi. Meno entusiaste sono le organizzazioni che affiancano quotidianamente e da decenni le centinaia di donne impegnate ad affrontare il lungo e difficile percorso per fuoriuscire da una situazione di violenza. I punti di forza della nuova legge esaltati dall’assessora Deeg includevano proprio il coinvolgimento dei centri antiviolenza nella stesura del testo ma è Christine Clignon, presidente di Gea Bolzano, a spiegarci che non è andata proprio così.

 

salto.bz: Dott.ssa Clignon, potrebbe illustrare brevemente che cosa andrà ad introdurre concretamente il nuovo Disegno di Legge voluto dall'assessora Deeg?

Christine Clignon: La Legge in questione va a sostituire l’attuale normativa provinciale, nonché la prima legge istituita a livello italiano così specificatamente incentrata sulla violenza contro le donne, oramai datata e che necessitava di conseguenza di una rielaborazione in modo da poterla adeguare alle direttive europee, a loro volta fortemente ispirate alle indicazioni della Convenzione di Istanbul. Tali indicazioni insistono particolarmente sul tema della prevenzione della violenza, la quale non può avvenire al di fuori dei centri antiviolenza, che per la stessa convenzione hanno un ruolo centrale.

Questo disegno è stato portato avanti secondo le esigenze e gli obiettivi dell'assessorato senza considerare le criticità rilevate dai centri antiviolenza


Per quanto riguarda la stesura del testo, possiamo confermare quanto ribadito dall'Assessora, ovvero che i centri antiviolenza sono stati coinvolti nel processo partecipativo?

I centri antiviolenza, così come diverse altre associazioni ed enti provinciali sono stati coinvolti durante le fasi preliminari, partite a fine 2019 e proseguite per tutto il 2020. Era un gruppo eterogeneo che ha lavorato devo dire piuttosto bene, soprattutto in materia di prevenzione.


E poi cosa è successo?

È stata elaborata una bozza iniziale, ma questo disegno è stato poi portato avanti secondo le esigenze e gli obiettivi dell'assessorato senza considerare le criticità rilevate dai centri antiviolenza. Ribadisco la disponibilità da parte nostra di mettere a disposizione le nostre esperienze pluriennali che hanno come focus proprio i bisogni delle donne in situazioni di violenza.


Alcuni dei contenuti del Disegno di Legge che verrà sottoposto a votazione del Consiglio sono stati comunque annunciati dalla stessa Deeg durante l’ultima conferenza stampa della Giunta. Sulla base di quanto emerso, quali criticità hanno riscontrato i centri antiviolenza precedentemente coinvolti?

Di solito io dico sempre che non è tanto la norma ma il modo in cui viene applicata a fare la differenza, tuttavia in questo caso posso dire che questa legge, voluta così fortemente dall’assessora Deeg, in alcuni passaggi è molto distante dai bisogni reali delle donne costrette ad affrontare una situazione di violenza. Tra i punti più problematici troviamo sicuramente la questione degli sportelli pubblici esaltati, devo dire, con molto entusiasmo e che l'assessora vorrebbe istituire in ogni comune della Provincia, dal più popoloso a quello più isolato e abitato da poche centinaia di persone. Tuttavia uno sportello pubblico, per ragioni più che ovvie, non può garantire l’anonimato che invece è uno degli aspetti più importanti per le donne che tentano di intraprendere un percorso di fuoriuscita da una situazione di violenza: lo stigma è fortissimo. La vergogna, il doversi interfacciare con la cosa pubblica sono aspetti altrettanto spaventosi. Tutto questo deve essere gestito con professionalità e sappiamo che le professionalità non si improvvisano ma sono il frutto di un lungo percorso che comprendono esperienza sul campo e formazione continua. Lo sportello così inteso non garantisce infine un altro aspetto fondamentale, se non il più importante che è quello del filo diretto, una risposta immediata di accoglienza e ascolto professionale che solo appunto i centri antiviolenza sono in grado di offrire. Il rischio è che questa legge aggiunga ulteriori ostacoli alle donne che cercano di rompere il silenzio, ostacoli che invece andrebbero rimossi.


Come si pone questa legge rispetto alle donne con background migratorio che molto spesso non hanno confidenza né con la lingua né con l’iter legislativo?

Innanzitutto sappiamo che la maggior parte dei casi di violenza contro le donne si verifica in ambiti domestici. La violenza è trasversale e può colpire tutte, dalla contadina sudtirolese, alla moglie dell’avvocato, così come può colpire le donne con un background migratorio e che vivono nella provincia da più o meno tempo. Sicuramente uno sportello pubblico non è la risposta, a differenza dei centri antiviolenza che operano in un contesto di accoglienza immediata al di là delle barriere, mettendo a disposizione mediatrici linguistiche e culturali che possono facilitare il mettere a proprio agio la persona che si rivolge al centro, indipendentemente dal contesto di provenienza. Sarebbe più importante rafforzare i servizi esistenti piuttosto che istituirne di nuovi.


A livello nazionale una risposta istituzionale e istituzionalizzata, nonchè particoalrmente focalizzata sul ruolo delle Forze dell’Ordine, è arrivata con l’introduzione del cosiddetto "Codice Rosso" da parte del governo composto da Lega e 5 Stelle. Il recente caso di femminicidio di Vanessa Zappalà ha sollevato molte critiche sull’efficacia della norma...

Come detto prima, non è tanto il distinguo tra norma buona e cattiva ma molto dipende dalla sua applicazione. Entrando nel merito del cosiddetto Codice Rosso, questa norma è stata introdotta in seguito a diverse pressioni da parte dell’Unione Europea in quanto l’Italia non disponeva si una normativa sufficientemente tutelante per le donne. Questa legge sulla carta si leggeva bene ma partiva dal presupposto che non c’erano fondi per implementarla e quindi chi la sta applicando al momento sono persone spesso non formate per fronteggiare situazioni di questo tipo, le quali continuano a vivere e riprodurre stereotipi e pregiudizi anche nelle loro sedi professionali.

L'applicazione di una normativa così specifica e cruciale per la riuscita del progetto di fuoriuscita dalla violenza non può dipendere dalla sensibilità individuale ma deve basarsi su una profonda e condivisa conoscenza del fenomeno.


Eppure l’art. 5 della norma in questione prevede esplicitamente l’obbligatorietà di corsi di formazione specifici sul tema per le Forze dell’Ordine. A livello nazionale iniziative di questo tipo si contano sulle dita di una mano e spesso vengono attuate a discrezione delle singole questure. Qual è la situazione invece a livello provinciale?

In Alto Adige ci sono state alcune iniziative a riguardo ma il tutto aveva dei contorni estemporanei e che lasciano di conseguenza il tempo che trovano. È altro quello di cui abbiamo bisogno. L'applicazione di una normativa così specifica e cruciale per la riuscita del progetto di fuoriuscita dalla violenza non può dipendere dalla sensibilità individuale ma deve basarsi su una profonda e condivisa conoscenza del fenomeno.


Sempre a Bolzano ha fatto scalpore che proprio lo scorso 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il Consiglio provinciale ha bocciato la mozione di avviare alcuni progetti scolastici finalizzati alla prevenzione e al contrasto degli stereotipi e della violenza di genere. Ad aver votato contro anche gli stessi esponenti del partito, nonché la stessa assessora Deeg e i tre assessori alla Scuola che con una mano si disegnavano il famoso livido simbolico sotto l’occhio e con l’altra votavano contro

Si trattava di una proposta molto semplice e concreta, e che personalmente salutavo con favore. Al giorno d’oggi infatti sono le singole scuole a decidere se presentare o meno progetti di prevenzione della violenza. Quello che si voleva fare era renderli vincolanti e prevedere un finanziamento ad hoc. Non venne accolta e chi ha votato contro diceva che progetti di questo tipo non erano necessari dal momento che la Giunta stava lavorando proprio a una nuova legge sul contrasto e la prevenzione della violenza di genere. Ecco: questa è la legge ma al momento manca di concretezza.

Vedere le donne come vittime e soggetti deboli apre la porta alla prevaricazione

La continua e ossessiva vittimizzazione della donna che subisce violenza crea spesso un binomio indissolubile. Questa narrazione non rischia a modo suo di perpetuare lo stigma e favorire contesti violenti?

Vedere le donne come vittime e soggetti deboli apre la porta alla prevaricazione. Bisogna al contrario puntare all’ascolto della donna, del suo vissuto e dei suoi bisogni e questo è un aspetto fondamentale. Quando invece arrivano queste proposte di legge, che sia il Codice Rosso o quella recentemente approvata dalla Giunta provinciale, il messaggio è sempre lo stesso: "tu donna devi denunciare e fare per il tuo bene quello che dico io". Si passa così da un contesto di violenza a un’altra forma di prevaricazione, si suggerisce una risposta, la propria risposta, e se non viene accolta diventa colpa della donna stessa e la domanda che si pongono è sempre la stessa: perché queste donne non denunciano visto che hanno tutte le possibilità di farlo? La risposta è semplice: perché la denuncia di per sé non è sufficiente, viene anzi spesso ritirata in un secondo momento. Il fondo di solidarietà previsto da Deeg per esempio si limita al coprire le spese legali, un aspetto sicuramente importante ma che non contribuisce a spostare il baricentro. A fare la differenza sono le possibilità. La possibilità per una donna di avere uno spazio sicuro in cui essere accolta, ascoltata ma soprattutto creduta. La possibilità concreta di vivere lontano e libera dal proprio maltrattante. La possibilità di accedere al mercato del lavoro e a quello abitativo. E per fare questo le risorse sono necessarie. Dobbiamo considerare questi punti fondamentali se vogliamo andare oltre a letture molto superficiali del fenomeno.


Che cosa possono fare dunque in questa fase i centri antiviolenza per affrontare i nodi più problematici del Disegno di Legge in questione?

Siamo in una fase in cui ci stiamo interrogando e vagliando tutte le opzioni per rendere questo disegno di legge più vicino alla realtà e ai bisogni stessi delle donne che subiscono violenza e a cui questa legge dovrebbe rivolgersi. Stiamo percorrendo la via del dialogo, che è quella che senza dubbio preferiamo. Non ci interessa la polarizzazione delle idee né indurire le rispettive posizioni. L’unico obiettivo dei centri antiviolenza è quello che la normativa persegua gli obiettivi che afferma di porsi: quella di prevenire la violenza e rafforzare il sostegno per affrontarla quando invece si verifica.