Il genio scomparso
Tornato poco tempo fa alla ribalta tra i media per un suo probabile avvistamento alla fine degli anni ’50 in Venezuela, Ettore Majorana è probabilmente uno dei più enigmatici quanto sorprendenti fisici che caratterizzarono il Novecento. Nato a Catania nel 1906, studia dapprima ingegneria e quindi fisica a Roma. Entrato qui in contatto con il professore Enrico Fermi, dimostra ben presto le sue notevolissime abilità di fisico, tanto da arrivare quasi a “correggere” lo stesso Fermi appena entrato nel suo corso. Come racconta Edoardo Amaldi, “[Fermi] mostrò a Majorana gli estratti dei suoi recenti lavori sull’argomento [un modello che descrivesse il moto degli elettroni] e, in particolare, la tabella in cui erano raccolti i valori numerici del cosiddetto potenziale universale di Fermi. Majorana ascoltò con interesse […] e se ne andò senza manifestare i suoi pensieri […] Il giorno dopo, nella tarda mattinata, si presentò di nuovo all’Istituto, entrò diretto nello studio di Fermi e gli chiese, senza troppi preamboli, di vedere la tabella che gli era stata posta sotto gli occhi per pochi istanti il giorno prima. Avutala in mano, estrasse dalla tasca un fogliolino su cui era scritta una analoga tabella da lui calcolata a casa nelle ultime ventiquattr’ore [modificando alcuni calcoli e procedimenti] […] Confrontò le due tabelle e, avendo constatato che erano in pieno accordo, disse che la tabella di Fermi andava bene…”.
Affermatosi così in pieno diritto come uno dei più talentuosi di quel gruppo di fisici passati alla storia come “i Ragazzi di via Panisperna”, Majorana stupisce i suoi compagni tanto con la sua bravura quanto con la sua umiltà e timidezza, che lo condurranno ad elaborare la teoria di Heisenberg di un nucleo atomico fatto di protoni e neutroni prima dello scienziato tedesco, ma a non pubblicare il suo lavoro giudicandolo “roba da bambini”. Il merito andrà quindi a colui che è considerato tra i fondatori della meccanica quantistica, che tra l’altro il giovane Ettore incontrerà nel 1933 in Germania. Questo viaggio fu tra i più proficui ed entusiasmanti della sua breve vita, che lo vedrà scomparso nel 1938, all’età di appena 32 anni, dopo essersi imbarcato a Napoli su un traghetto diretto a Palermo.
37 anni dopo un altro siciliano, lo scrittore Leonardo Sciascia, torna a ripercorrere e a tracciare la sua misteriosa vita nel romanzo “La scomparsa di Majorana”. In quest’opera l’autore intende non tanto riportare la versione ufficiale delle vicende che videro coinvolto il cosiddetto “saraceno” (per via del suo aspetto tipicamente mediterraneo, quasi nordafricano), bensì tracciare la vita “velata” del fisico, rimasta meno conosciuta. Riporta così l’autonomia in cui lavorava Majorana e la sua singolare abitudine di annotare le idee su un pacchetto di sigarette la mattina mentre in bus raggiungeva l’Istituto di Fisica, per poi cestinarle subito nel timore che un qualsiasi estraneo potesse penetrare nei suoi pensieri. Ma come dice il titolo un ruolo fondamentale nel racconto è rivestito dalla misteriosa scomparsa del grande fisico, accompagnata da un insieme di lettere contraddittorie che una volta sembrano alludere ad un suicidio e l’altra rassicurano i familiari. Interessante è anche la poca attenzione con cui, malgrado le insistenze e gli aiuti dei famigliari, segue il caso la polizia, impegnata in altri affari e allineata al pensiero del Duce, che evitava ben volentieri di diffondere notizie di problemi di qualsiasi sorta in un’Italia che doveva (apparire) funzionare alla perfezione.
Ma cos’ha spinto Majorana a lasciare il palcoscenico nel bel mezzo di uno spettacolo così ben avviato? C’è chi dice la timidezza, chi la paura del Fascismo. Sciascia propone una sua risposta, che vede Ettore Majorana “veggente”, oltre che fisico. Ritiene, infatti, che possa aver previsto in anticipo a cosa avrebbero portato quegli studi sull’atomo che lui e i suoi colleghi stavano portando (forse inconsciamente?) avanti, e non volle più farne parte. Questo punto è molto caro a Sciascia, che non perde mai l’occasione di sottolineare la profonda complicità degli scienziati nella costruzione dell’arma più letale mai concepita dalla mente umana. D’altro canto però lo scrittore non li vuole nemmeno demonizzare, scusandoli per la loro (probabile) cecità ed illusione e non certo crudeltà: essi volevano studiare l’atomo, non sterminare l’umanità (per la quale anzi lavoravano): non è la scienza ad essere buona o cattiva, ma l’uso che se ne fa. Certamente numerosi scienziati si sono lasciati trascinare un po’ troppo dall’interesse che i governi avevano nei loro studi, finalmente oggetto di attenzione e finanziamenti a patto che giungessero ad un qualche risultato “pratico”, ma di certo non hanno agito in mala fede. A conti fatti, i modi e le ragioni della scomparsa di uno dei più grandi scienziati siciliani dopo Archimede resteranno probabilmente per sempre avvolti dal mistero, ma questo libro contribuisce non poco a scandagliare meglio quegli altri fatti della sua vita che ancora possiamo dire certi, ma che pochi conoscono.
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