Parole vuote: semi-presidenzialismo
Una delle parole al centro dell’attuale dibattito politico e dell’attenzione dei media è semi-presidenzialismo. Viene presentata dal governo e/o dai partiti che lo sostengono come uno dei possibili punti qualificanti delle riforme istituzionali di cui il paese ha urgente bisogno e che il governo Letta si è ripromesso di varare. Secondo i più ottimisti, rafforzando i poteri del presidente della Repubblica si andrebbe proprio nella giusta direzione: modernizzare le istituzioni e renderle più efficaci e rispondenti ai bisogni del paese. Secondo altri, critici, il semi-presidenzialismo non ha nulla a che fare con i veri bisogni del paese; le priorità sarebbero ben altre. I più maligni osservano che la riforma sarebbe invece ritagliata esattamente per fornire a Berlusconi uno scudo definitivo per sfuggire ai suoi problemi giudiziari, alle sentenze di condanne che, presumibilmente (e ferma restando la presunzione d’innocenza fino al terzo grado di giudizio), fioccheranno nei prossimi mesi nei suoi confronti. Spazziamo via subito quest’ultima malignità palesemente infondata. Se mai la riforma il senso semi-presidenziale sarà varata, passeranno un paio d’anni e forse più. Nel frattempo con ogni probabilità alcune delle sentenze di condanna di Berlusconi saranno divenute definitive, con il loro contorno di esclusione dai pubblici uffici. Perciò, è probabile che Berlusconi sarà comunque ineleggibile, a qualsiasi carica.
Chiediamoci invece se il semi-presidenzialismo sia da prendere sul serio come riforma costituzionale decisiva e determinante. Potremmo chiederci se davvero il presidente nell’attuale sistema costituzionale sia così debole da aver bisogno di un’iniezione di robusto presidenzialismo (o semipresidenzialismo). Ricordo che il presidente dispone di molti poteri, significativi: da quello di nomina del presidente del consiglio, a quello di scioglimento delle camere, a quello della presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, al comando delle forze armate, e altri ancora. Questo sulla carta. La realtà dei fatti è che abbiamo avuto nella storia della Repubblica presidenti molti deboli, come Giovanni Leone, costretto a dimettersi per un grave scandalo (finanziamento illecito ai partiti), ma anche molto criticato per la vita privata sua, della moglie e dei figli (del più giovane si ricorda la fulminante carriera di professore universitario! Della moglie tacciamo, per amor di patria). Abbiamo avuto un presidente, come Antonio Segni, che con ogni probabilità ha sostenuto il tentativo di golpe del generale Di Lorenzo nel 1964, abbiamo avuto il presidente Cossiga che nella seconda parte del suo settennato passava il suo tempo a criticare aspramente tutto e tutti, tanto da essere chiamato “il picconatore” o “l’esternatore”. Ma abbiamo avuto un Pertini, che con la sua figura ha ridato prestigio e fiducia all’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni, un Ciampi, un Napolitano, che proprio in questi mesi ha dato un concreto esempio di come il presidente, esercitando i suoi limitati poteri, sia in grado di influenzare in modo decisivo la vita politica del paese. Limitati poteri, perché in una democrazia ben bilanciata i poteri delle istituzioni principali debbono essere reciprocamente limitati.
Se prendiamo un esempio classico di semi-presidenzialismo, quello della repubblica di Weimar, è vero che il famigerato articolo 48 della costituzione varata nel 1919 dava al Reichspräsident poteri straordinari in momenti di crisi. Ma sappiamo che la repubblica non è crollata a causa dell’esistenza di quell’articolo, bensì dell’uso politico che ne è stato fatto. Mentre il primo presidente, Ebert, lo aveva messo in campo per consolidare le istituzioni repubblicane e democratiche, il suo successore, feldmaresciallo Hindenburg, mise in atto i poteri straordinari a partire dal marzo 1930 per indebolire e infine abbattere la repubblica.
Con queste osservazioni voglio ricordare come il sistema costituzionale vigente dia ampie possibilità di operare in modo flessibile, adattando le istituzioni vigenti alla situazione del momento. Poi, parlando di semi-presidenzialismo oggi ci si limita a ricordare l’elezione diretta del presidente – come se questa fosse la soluzione a tutti i mali. Ma se anche il presidente fosse eletto direttamente dai cittadini, acquisendo così un potere particolare, e se nel frattempo non si incidesse con interventi riformatori altrettanto incisivi nei poteri del parlamento, del governo, nelle reciproche relazioni fra queste istituzioni (e di questo non si parla, invece!), il presidente eletto dai cittadini rischierebbe di restare lì, appeso al sostegno popolare che ha ricevuto. E nulla cambierebbe…
Diverso mi sembra il caso di altre questioni istituzionali, che appaiono strutturali e urgenti: il bicameralismo perfetto che vige nel nostro ordinamento provoca oggettivamente un rallentamento e una rigidità nel processo legislativo, che potrebbero essere eliminati (o ridotti) definendo ambiti specifici di responsabilità per ciascuna camera. O la riforma del sistema elettorale, stante il fatto che quello vigente contiene una profonda contraddizione in termini: definito per garantire la governabilità, esso ne rappresenta invece evidentemente la morte, come dimostra l’esito delle recenti elezioni politiche, con lo squilibrio fra distribuzione dei seggi al Senato e alla Camera.
Allora, tornando all’inizio del mio ragionamento, sono indotto a pensare che di semi-presidenzialismo si parli per evitare di parlare d’altro, di affrontare i veri nodi del paese, accontentando una parte della maggioranza (il PDL), ma lasciando il paese, i cittadini in mezzo al fango dei loro guai.