Cultura | SALTO WEEKEND

Il disincanto della doppia appartenenza

Quale ruolo può avere la letteratura di fronte al circolo vizioso di impoverimento e barbarie in cui stiamo vivendo? Ingo Schulze a Bolzano.
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Foto: salto

Martedì 4 ottobre, lo scrittore tedesco Ingo Schulze è per la seconda volta a Bolzano ospite del Centro per la Pace. Stavolta l'occasione era data dalla presentazione di un piccolo volume di racconti e interventi, intitolato “L'utopia ferita” (Edizioni Il margine, Trento), curato e introdotto da Stefano Zangrando, al quale si deve anche la traduzione degli ultimi suoi libri apparsi in italiano (“Bolero berlinese”, “Adam e Evelyn”, “Arance e Angeli”, tutti usciti da Feltrinelli).

Schulze potrebbe essere descritto come il tipico romanziere impegnato, ossia capace di unire alla vena creativa del narratore l'impulso a stimolare discussioni e polemiche sui più stringenti temi di attualità e rilevanza civile. Un tratto al quale viene consegnato del resto dalle sue note meramente biografiche, che lo rendono ad un tempo radicato nel e sradicato dal processo dell'unificazione tedesca (è nato a Dresda nel 1962, quindi ha avuto un'esperienza diretta della DDR) e perciò autorevole osservatore di quella che appare – non solo ai suoi occhi, ma particolarmente ai suoi occhi – come una transizione dai molteplici residui.

Zangrando ha concisamente espresso il punto di partenza esistenziale di Schulze con una formula pregnante: il disincanto della doppia appartenenza. Una doppia appartenenza che, come si accennava, non si esaurisce nell'essere stato testimone di un determinato e circoscritto passaggio storico (niente a che vedere con la moda dell'Ostalgia, per intenderci), ma guarda anche al presente e al futuro, concentrandosi sulla critica di un “pensiero unico” al quale noi tutti soggiaciamo non essendo in effetti quasi più capaci di immaginarci un mondo alternativo a quello dominato dal capitalismo finanziario, non migliorato dalle deboli forme di democrazia che lo rispecchiano. Da qui la domanda centrale delle sue riflessioni (formulata anche all'interno del piccolo libro in questione): in che modo la letteratura può aiutarci a sostenere almeno l'ipotesi di un mondo alternativo e a disporne, se non l'avvento, almeno le condizioni di possibilità?

L'autore e il traduttore hanno esemplificato questa domanda leggendo un frammento intitolato “Una storia non scritta”. Durante una cena avvenuta nel 2010 in un ristorante di Bodrum, in Turchia, Schulze fu testimone di un curioso avvenimento. Mentre era lì con i suoi ospiti, e mentre tutti stavano mangiando, vide levarsi del fumo da un abbaino posto al primo piano di una casa, proprio di fronte al ristorante. Nessuno dette però segno di preoccuparsene, a parte un ovvio (ma tranquillo) cambiare di posto. Tutto continuava in un certo senso come se niente fosse. “I camerieri continuavano a correre e devo confessare che anch'io continuai a masticare. E ci eravamo forse comportati meglio perché ci eravamo alzati? Nel frattempo si era levato un fumo denso e nero”. Solo l'intervento isolato di un ragazzo, arrampicatosi fin lassù, riesce a sciogliere un intreccio divenuto paradossale. La conclusione di Schulze allarga lo sguardo da quell'evento minimo al fosco paesaggio costituito dai drammi contemporanei: “I profughi che oggi s'imbattono nei turisti a Bodrum o Kos rivelano il contrasto profondo del nostro mondo in maniera così stridente che, al confronto, le mie esperienze di allora impallidiscono”.

Che vicino al ristorante in cui si sta mangiando si sviluppi un incendio non è un fatto da considerare come “selbstverständlich” (scontato, normale), ma proprio la normalizzazione di ciò che apparirebbe o appariva completamente assurdo in un altro contesto – la produzione di ingiustizie e disparità che adesso motiva milioni di persone a scampare dai loro incendi veri o metaforici – risveglia il senso di responsabilità di chi scrive, spronandolo a cercare una forma per scuoterci dall'inebetimento proprio di chi si ritiene al contrario un semplice spettatore, staccato da ciò a cui sta assistendo. Come il ragazzo che si è arrampicato fino all'origine del fuoco, anche il compito dello scrittore può essere sovrapposto così a quello di un acrobata che si libra sulle contraddizioni più laceranti, per rendere partecipi gli uomini di esperienze altrimenti intraducibili, altrimenti destinate a restare sconnesse, mute e prive di effetti.

Possiamo conservare e preservare il senso di un'utopia sottratta al meccanismo del “pensiero unico livellante” - ha concluso Schulze – soltanto riformulando incessantemente la domanda “in che modo vogliamo vivere”? Una domanda apparentemente semplice, quasi inerme, ma “qualche volta le risposte che cerchiamo sono semplici e per questo abbiamo anche bisogno di domande semplici”. Se, al contrario, rinunciassimo a riattivare la ricerca di un senso profondo del nostro agire (sia individuale che collettivo), ecco che avrebbero libero e incontrastato sfogo tutte quelle forze – per Schulze incarnate sia dalle nuove destre europee, sia dal capitalismo “naturalizzato” - che traggono profitto dal circolo vizioso di impoverimento e barbarie nel quale siamo sempre più collocati.