Riflessioni sulla pace

-
Dove c'è Pace c'è cultura, dove c'è cultura c'è Pace (N. Roerich)
Sono figlio della paura di una catastrofe nucleare; chi come me è nato tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 è stato segnato dalla paura di una possibile guerra nucleare. Basta guardare alla frequenza con cui la minaccia del disastro nucleare compaia nei film della storia della mia generazione: si va da James Bond fino a film a scopo didattico come “The day After”. Probabilmente per quelli come me, come ha detto il filosofo britannico Mark Fischer, “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.
Eppure, se guardo alla evoluzione degli ultimi anni, mi sono convinto che l’idea di “fine del mondo” non debba primariamente collegarsi ad una crisi economica, come forse la frase di Fischer potrebbe indurre a pensare, ma più probabilmente debba associarsi alla crisi ambientale. Condivido in questo senso il pensiero di Bruno Latour quando dice che la questione attuale non è più quella di utilizzare le risorse bensì quella di garantire l’abitabilità di Gaia. E se, come mi sembra, stiamo assistendo a un cambiamento di epoca, la nuova epoca si può realizzare solo attraverso una cultura capace di creare nuovi orizzonti e la produzione di nuove grandi narrazioni. E’ ciò che (vedi Latour) la borghesia prima e il socialismo poi hanno fatto nei confronti dell’aristocrazia: “Non ci si rende conto dell'enorme lavoro intellettuale e culturale compiuto dalla scienza economica, prima liberale e poi socialista”.
In questi giorni in cui alla mia ormai cronica preoccupazione per la crisi climatica si somma la paura per la pace, mi chiedo quale via stia imboccando l’umanità.
E qui prendendo spunto del libro “L’idea messianica nell’ebraismo” di Gershom Sholem, e mi permetto una semplificazione (estrema): secondo la cultura ebraica la redenzione è possibile solo dopo l’apocalisse; viceversa secondo la cultura cattolica la redenzione è già avvenuta con il compimento della venuta di Cristo e quindi la redenzione è possibile in qualsiasi momento.
Si tratta di un bivio e di un tema che spesso torna nell’ambito del mio lavoro, la tutela dell’ambiente. Ne aveva parlato il vescovo Hermann Glettler in un convegno tenutosi a Innsbruck nel settembre del 2021 in cui spiegava che l’approccio ambientale dell’uomo poteva passare o a attraverso il disastro o attraverso il design; il primo coincide con l’apocalisse il secondo si avvicina all’idea cattolica. Ne parla in qualche modo Langer individuando i rischi legati ad un approccio che delega alla catastrofe la possibilità di creare un mondo migliore: “In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali disastri” (A mali estremi, estremi rimedi, muoia Sansone con tutti i filistei? Eco-dittatura).
-
"E' più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo" Mark Fischer
Sono d’accordo con Fischer, l’apocalisse è facile da immaginare, ma la sua strada alternativa qual è? Torniamo a Latour e alla sua idea di questo enorme lavoro culturale che ci aspetta, idea in qualche modo condivisa anche da Claudio Naranjo (vedasi “l’educazione per cambiare il mondo”) e probabilmente dallo stesso Langer li dove parla di superare visioni estreme, per rendere la conversione ecologica desiderabile.
Se la risposta è questa, costruire cultura, questa stessa risposta è portatrice dell’interrogativo circa i mezzi a nostra disposizione. Come fa notare il filosofo Byung-Chul Han, abbiamo ormai modelli comunicativi che sono profondamente intaccati. Viviamo nell’epoca dello storytelling dove anche il raccontare storie serve a vendere storie e non a creare comunità.
È chiaro che questo breve intervento si confronta con domande essenziali per le quali non si trovano tutte le risposte, ma forse qualche linea di intervento si può tratteggiare, perché credo che per quanto tutto sia molto difficile non necessariamente sia irrealizzabile o impossibile.
Il primo passo forse sta’ nell’uscire dalla narrazione vincente/perdente che pervade la nostra società in maniera trasversale, dalla politica alla scuola. Il sociologo Ferrarotti diceva “L’economia di mercato finisce per tracimare e trasformare tutta la società in una società di mercato, vale a dire tutti i rapporti sociali, interindividuali, fino alla sfera intima, tendono a porsi come rapporti utilitari, contrattuali di mercato e non più come autentici valori umani”. Si pensi che poi questo tipo di narrazione vincente/perdente è quella sulla quale si basa la comunicazione attraverso i social, che misurano il nostro successo sulla base dei follower o dei like. A chi fosse interessato consiglio il libro “la società della performance” di Gancitano e Colamedici dove riporta un esperimento effettuato all’apertura di un locale esclusivo in cui tutto era determinato dal numero di follower e dei like dei commensali.
Inoltre, la dinamica vincente perdente è, in questa società, la modalità con cui quasi esclusivamente entriamo in relazione con il potere ovvero potere come abuso (vincente) o potere come abdicazione (perdente). Si tralasciano così tutte le altre possibili accezioni. Come spesso succede, per capire l’ampiezza di una parola, basta tornare alla sua etimologia che nel nostro caso parla di possibilità. E quindi il far coincidere la parola potere con i soli significati di abuso o abdicazione, ci riduce l’ampiezza dell’orizzonte. Si perde ad esempio il valore e il significato delle asimmetrie che la vita ci propone, e che non debbono necessariamente essere concepite nella accezione di cui sopra; si pensi alla asimmetria maestro allievo, o adulto bambino solo per citare degli esempi. Asimmetrie che se vissute in maniera sana non parlano né di abuso né di abdicazione e che sono in qualche modo associabili alla descrizione che Hanna Arendt da dell’autorità nel suo breve scritto edito da Garzanti (Che cos’è l’autorità).
Restando poi alla citazione di Ferrarotti, il secondo aspetto, di cui dovremmo tenere conto, riguarda la sfera dei valori. E qui forse si dovrebbe pensare ad un “setaccio dei valori” attraverso cui dovrebbero passare le narrazioni, il tutto per evidenziare eventuali contraddizioni o incoerenze. I valori hanno la caratteristica di non essere negoziabili e sottendono alle nostre azioni, sono ciò che per noi è veramente importante. Possono essere espliciti (quando se ne ha consapevolezza) o impliciti (non dichiarati, inconsapevoli).
Partendo da questo punto, possiamo (sempre arbitrariamente) classificali in valori materiali (quelli che riguardano il nostro rapporto con la materia, quindi magari la casa bella, la macchina, ecc.), valori generali (quelli che riguardano il nostro gruppo sociale, ad esempio il valore della famiglia) e valori universali (quelli che condividiamo con l’umanità, come ad esempio la pace). Se compilassimo delle liste e confrontassimo queste tre categorie di valori forse scopriremmo alcune interessanti contraddizioni che ci impediscono di perseguire veramente i nostri valori universali. Ci potremmo accorgere ad esempio che il nostro valore materiale dell’auto (valore spesso inconsapevole, non dichiarato) è in contrasto con il nostro valore di tutela dell’ambiente (valore universale). Possiamo partire dal riconoscere i nostri limiti, con la volontà di trovare gli strumenti per superarli. Direi che è da qui che dobbiamo partire, da una verifica di coerenza, e forse così riusciremo a mettere un primo mattone alla costruzione di una cultura che sia in linea con la pace e forse a quel punto daremo senso alla frase “Dove c’è pace c’è cultura, dove c’è cultura c’è pace” (Nikolas Roerich).
È un interessante contributo…
È un interessante contributo finalmente incentrato su "valori fondanti" condivisi, facendo un raffronto con gli ultimi periodi storici. Occorre dire che chi è nato a metà degli anni '60, come me, ha attraversato epoche di cambiamenti e è proprio necessario riflettere sui cambi di prospettiva e su dove vogliamo andare
In risposta a È un interessante contributo… di Simonetta Lucchi
E' vero è importante…
E' vero è importante guardarsi indietro per capire che direzione abbiamo preso e dove vogliamo andare. Sarebbe anche una bella idea farlo in una sorta di incontro generazionale, confrontando il dove volevamo "andare" noi quando avevamo vent'anni e dove "vogliano" andare i vent'enni di adesso, senza nessuna pretesa di giudizio. Un caro saluto