Politica | Gastbeitrag

Di ritorno da Riga

Sulla frontiera orientale dell’Europa, la guerra sta cambiando parole e pensieri. La situazione in Lettonia raccontata da Riccardo Dello Sbarba.
Riga dall'alto del campanile di Sv. Petera
Foto: Riccardo Dello Sbarba

Primi di giugno del 2022. L’aereo per la Lettonia è costretto a una lunga deviazione per non incappare in “spazi aerei nemici”. Evitando a ovest l’enclave russa di Kaliningrad e a est la Bielorussia, infila il corridoio di sicurezza che dalla Polonia porta direttamente in Lituania. Mi viene un brivido: da quanto non c’erano più spazi aerei vietati e minacciosi sul continente europeo?

 

 

Sulla frontiera orientale l’Europa è in guerra. Dalle nostre parti non ce ne rendiamo conto. Ma a Riga si tocca con mano. La bandiera ucraina è esposta ovunque accanto a quella lettone (che è stata aggiunta in basso persino al logo dell’Air Baltic). Rosso-bianco-rosso accanto a giallo e blu: le due bandiere sventolano su tutti i ministeri, gli edifici comunali, le scuole, gli ospedali, i musei, i teatri. Adesivi giallo-blu dell’Ucraina sono stati attaccati sulle finestre delle scuole, sui finestrini dei tram e degli autobus. Murales sugli edifici invitano gli ucraini a resistere e a vincere. L’ambasciata della Russia a Riga è circondata di cartelli contro l’aggressione e un grande fotomontaggio affisso lì davanti ritrae un Putin-vampiro su sfondo rosso. Il viale su cui si affaccia l’ingresso principale è stato ribattezzato: “Via della solidarietà con l’Ucraina”. Affinché ogni lettera che arriva all’ambasciatore gli ricordi da che parte sta il paese dove si trova. La Lettonia sente la guerra dell’Ucraina come guerra propria.

La Lettonia sente la guerra dell’Ucraina come guerra propria.

E ne ha più di un motivo. Il processo che ha reso Kiev indipendente da Mosca è lo stesso che ha portato fuori Riga, Vilnius e Tallin fuori dalla sfera ex sovietica. Tutti e quattro gli stati sono diventati indipendenti nello stesso anno, il 1991. Così, da quando è cominciata l’aggressione di Putin per “riprendersi” l’ex granaio della Russia, cioè fin dall’annessione della Crimea del 2014, i tre stati baltici hanno pensato: “Subito dopo toccherà noi”. Per questo, l’Ucraina indipendente invasa dai russi ora combatte anche per loro.

 

 

Putin usa il pretesto di “soccorrere” i russi del Dombass? Anche in Lettonia vivono oltre mezzo milione di russofoni, il 25% sul totale della popolazione dello stato (1,9 milioni). I lettoni di origine e lingua russa sono il 42% a Riga e il 53% a Daugavpils, la seconda città. Alla comunità russa preesistente (oltre 200 mila nel 1935) si è aggiunta l’immigrazione promossa dal regime sovietico (1945-1990) per russificare il Baltico con industrie e nuovi quartieri popolari, arrivando a 900 mila lettoni-russofoni nel 1989. Una parte se n’è poi andata via dopo l’indipendenza.

Chi è rimasto (557.618 al 2017) non ha ricevuto però automaticamente la cittadinanza della nuova Lettonia. Per tutte le persone i cui antenati non erano residenti prima del 1940 è obbligatorio superare un esame di lingua lettone. 155.000 russi non l’hanno superato, o si sono rifiutati di farlo, e da allora vivono nella condizione ufficiale di “non cittadini lettoni”, una dizione giuridica degna d’una distopica fantascienza.

 

 

I “non cittadini” sono privi del diritto di voto e anche di alcuni diritti sociali. Sono 240 mila persone, l’11,2% della popolazione totale. Tra questi i russi sono il gruppo più grande, ma la scure dell’esame di lingua ha colpito anche altri gruppi. La statistica ufficiale parla di 32 mila bielorussi, 23 mila ucraini (!), 8 mila polacchi, quasi 2000 “ebrei” (!!), e perfino 600 lettoni, oltre a 15 mila “altri”. Cittadini di serie B, per cui perfino l’OSCE ha invocato una maggiore integrazione, per esempio ammettendoli al voto locale. Affinché la Lettonia non si crei un “nemico interno” con le proprie mani. E il parlamento lettone un piccolo passo avanti l’ha fatto: dal 2020 la legge concede la cittadinanza lettone ai figli nati in Lettonia da genitori “non cittadini”.

Ma alla separazione giuridica si aggiunge una crescente marginalità culturale e politica. Nel 2012 un referendum sul riconoscimento del russo come seconda lingua è stato bocciato con il 75% dei no (ma 155 mila russofoni non avevano diritto di voto). Dopo le elezioni parlamentari del 2019, una coalizione di 5 partiti di centro destra e orientamento lettone-nazionale governa il paese, sebbene il primo partito uscito dalle urne sia stato il socialdemocratico “Armonia”, russofono.  Relegato all’opposizione, “Armonia” sta diventando sempre meno socialdemocratico e sempre più partito etnico della minoranza russa (anche se per ora condanna l’aggressione di Putin all’Ucraina).

 

 

Le tracce della Lettonia sovietica si vedono ancora ovunque: i grandi casermoni popolari costruiti nella “nuova Riga” a ovest del fiume Daugava, al centro della quale sorge un enorme “monumento alla Vittoria” dell’Armata Rossa contro la Germania nazista, in puro stile realsocialista. All’inizio della guerra in Ucraina la città prese la decisione di abbatterlo, ma dovette revocarla dopo giorni di manifestazioni e presidi della minoranza russa di Riga. Da allora tutta l’area del monumento, ampia diversi ettari, è chiusa da un lunghissimo cerchio di transenne, l’accesso è vietato e sorvegliato da decine di pattuglie di polizia. Perché non diventi punto di raccolta di manifestazioni pro-Putin.

Nella piazza principale del Municipio, la storica Ratslaukums, l’enorme memoriale per l’Armata Rossa è stato trasformato in un meraviglioso, terribile, commovente museo sull’occupazione della Lettonia da parte di nazismo e stalinismo. Il museo mostra il destino di un piccolo paese dominato a turno da due regimi autoritari che nel ‘900 si sono arrogati il diritto di trattare i popoli come animali: poterli spostare a milioni, poterli dividere e incrociare, poterli deportare, perseguitare, sterminare. Il gulag e il lager sono descritti nelle loro similitudini impressionanti attraverso le biografie delle persone deportate, i loro disegni (che mostrano spazi carcerari assolutamente identici, che sia lager o gulag), le loro sofferenze, la loro morte per esecuzione di massa, o per malattia, freddo e fame.

 

 

Il museo non tace sull’adesione di migliaia di lettoni all’uno o l’altro regime, descrive i battaglioni lettoni della Wehrmacht e delle SS così come quelli dell’Armata Rossa. Di entrambi sono mostrate le divise, i gradi, le medaglie, le attrezzature, le foto. Mostra le esecuzioni di ebrei perpetrate dai nazisti. Mostra le torture nelle celle sotterranee del lussuoso palazzo “Stūra māja”, gioiello dell’architettura d’inizio ‘900, trasformato in quartier generale della polizia staliniana sulla Brīvības iela, l’arteria che attraversa il centro di Riga. Parla di resistenza e di persecuzione, di collaborazionismo e di delazione, degli ebrei sterminati da Hitler e dei democratici deportati da Stalin. Il 25 marzo 1949, in una sola notte, i sovietici riuscirono a deportarne 42.000 in Siberia. Nei gulag la maggior parte di loro non sopravvisse per più di due anni. Così come nei lager.

La legge Lettone condanna come “illegale revisionismo” qualsiasi negazione della sostanziale equivalenza di gulag e lager. È illegale fare differenze. Può suonare curioso, per noi da lontano. Nulla è certo paragonabile all’Olocausto. I nazisti vollero sterminare un popolo, quello ebreo; gli stalinisti ogni oppositore o presunto tale. Ma attraversando queste sale che gelano il sangue è difficile non pensare che lager e gulag, al di là delle ideologie che li avevano creati, avessero in comune l’identica disumana pretesa di esercitare sul prossimo un dispotico assoluto potere, l’identico disprezzo per l’essere umano.

 

 

In questa Riga dove il presente è così minacciato, la storia così dolorosa e le ferite così recenti e aperte, si tiene il 35° comitato direttivo del Partito verde europeo a cui noi dal Sudtirolo partecipiamo per la prima volta come membri effettivi. Si tocca con mano la svolta: l’Europa è in guerra. La parola “pace” non è mai pronunciata senza la parola “sicurezza”, declinata nei modi più vari. Sicurezza è autonomia energetica e fonti rinnovabili. Sicurezza è diplomazia e trattativa. Sicurezza è soccorso ai profughi. Ma sicurezza è anche sostegno militare, armamenti e riarmo. C’è uno slittamento del linguaggio che fa impressione, a maggior ragione perché risuona in un consesso che ha alle spalle decenni di pacifismo.

Anna Lührmann, vice-ministra verde degli esteri della Germania, dice che bisogna aiutare l’Ucraina con tutti i mezzi, e va bene. Ma aggiunge che bisogna attrezzare l’Europa, anche sul piano militare, a difendersi dai progetti espansionistici di Putin (potete sentirla qui dal minuto 17). Si potrebbe dire qualcosa di diverso, oggi, da parte di una politica tedesca? Io non ho una risposta. Ma ad ogni parola sento dentro di me un osso che mi si frantuma. La risoluzione finale del comitato direttivo (qui), anche per un robusto innesto di “femminismo intersezionale”, riequilibra un po’ (“Military response cannot be the only response to the threat of our security…”) ma non suona meno drammatica.

Sulla sua frontiera orientale l’Europa si sente minacciata da una possibile imminente aggressione di Putin e si prepara al peggio, sperando che il peggio sia evitabile – e per evitarlo ritiene di dover usare anche la deterrenza. Sulla sua frontiera orientale l’Europa respira un’aria di guerra.

Al ritorno, mentre l’airbus della Baltic Air torna a fare slalom tra Kaliningrad e la Bielorussia, vedo quanto è vicina quella “linea nemica” e quanto sarebbe facile colpirci da lì, volendo. Mi viene per un momento in mente il Boeing 777 della Malaysia Airlines abbattuto nel 2014 da un missile lanciato dal Donetsk occupato dalle forze secessioniste filorusse in Ucraina orientale. L’immagine compare e scompare subito e mi chiedo se sia paranoia. Ma che una cosa del genere possa venirmi in mente mi fa rabbrividire.

Oltre al linguaggio, la guerra in Europa ci sta cambiando anche il pensiero.

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E C Sab, 06/11/2022 - 12:08

Io non so cosa ne penseranno gli altri, ma a me questo sembra un articolo equilibrato e neutro. Niente prese di posizione, ma solo osservazioni e fatti portati senza bisogno di convincere nessuno. Sia questo il tipo di giornalismo che ci serve.
Bravo

Sab, 06/11/2022 - 12:08 Collegamento permanente