Società | kebab for breakfast

Ḥalāl «a chilometro zero»

L'arretratezza del dibattito pubblico italiano ci porta a non chiamare le cose col proprio nome. Escludere dalla nostra comunità un kebabbaro non è semplicemente "ideologia del chilometro zero": è razzismo.

Ho letto con interesse il contributo di Nicola Perullo, condivisibile pur nella sua stringatezza, in risposta alle polemiche sulla carne ḥalāl nelle mense e sull'esistenza di un'ideologia a km 0. Ho però notato una leggera incongruenza, causata forse dalla stessa brevità: non trovo infatti un nesso di causalità tra il concetto ecologista del cd. "chilometro zero" (come lo conosco io) e l'esclusione dalla nostra comunità gastronomica del kebabbaro. Io mangio il kebab, non il kebabbaro: quest'ultimo può essere tranquillamente a chilometri cinquemila, anzi, deve. La comune accezione di "chilometro zero" (o forse dovrei dire "Null-Kilometer") considera - con un'evidente semplificazione di termini - l'area di provenienza delle materie prime, nella fattispecie delle carni, entro un'economia regionale. Questo soprattutto allo scopo di ridurre l'impatto ambientale dovuto al trasporto delle merci, ma non solo: ugualmente importanti, ancorché frutto di un'etica individuale, sono le riserve sollevate sull'allevamento, il foraggio o le tecniche di macellazione, in definitiva sulla natura stessa della produzione. Di qualsiasi prodotto si tratti: l'importazione di carne suina per lo Speck sudtirolese, sotto il profilo ambientale è discutibile, nonostante siano i sudtirolesi ad affumicarlo. Non sto a dilungarmi sul fatto che pure l'allevamento in loco sarebbe fonte di emissioni di gas serra, o sulla non proporzionalità tra "buono" e "vicinanza", basti solo considerare che tali quesiti non investono certo le origini mediorientali del kebabbaro, custode della propria (e ora anche un po' nostra) tradizione gastronomica: nel famoso mercato di Prenzlauer Berg a Berlino già dal 2008 esiste un Imbiss turco che propone un Bio-Döner (che risponde a quattro criteri: allevamento biologico e no-OGM, benessere animale e, appunto, chilometro "regionale") e ciò ha contribuito a riavvicinare, dopo vari Fleischskandale, molti consumatori tedeschi sensibili all'argomento. Un vegano potrà giustamente obiettare che di sensibilità, nell'uccidere un animale a prescindere dai metodi, non ce n'è molta, ma sofferenze inutili sono comunque evitabili: se ben eseguito, lo sgozzamento nella macellazione islamica (ed ebraica "kasher") è tale da garantire l'incoscienza e il rapido dissanguamento dell'animale, in quanto il flusso di sangue al cervello è interrotto e la morte immediata, minimizzando dolore e disagio per non "intossicare" le carni dall'eccesso di adrenalina (tra gli animalisti non c'è identità di vedute: la macellazione rituale è consentita in deroga alle normative europee sullo stordimento preventivo). Le carni ḥalāl ("lecite" secondo i precetti islamici) e kasher consumate in Europa possono tranquillamente provenire da allevamenti in loco, regionali: basta certificarle. Un kebab ḥalāl "a filiera corta" è possibile, anzi, probabile.

Lo scontro tra posizioni ecologiste (sul consumo di carni e benessere animale) e libertà religiosa, tra biodiversità e mercato, fa parte del più ampio e intricato dibattito sul multiculturalismo, non riducibile alla sola condanna del localismo xenofobo. Purtroppo in Italia - tra leghisti e forconi - bisogna sempre specificare da che parte stare, finendo per interrogarsi sull'esistenza o meno di un'ideologia del km zero, quando forse basterebbe considerare il razzismo come l'unica piaga ideologica capace di escludere "l'altro" dalla nostra società.