Post-modern, ma con rammarico
Stasera, al Palais Mamming Museum di Merano, Claudio Piastra e l'Ensemble Conductus, presentano un programma per chitarra e quartetto d'archi che include, oltre ad opere di Luigi Boccherini e dei Beatles riletti da Leo Brouwer, la prima assoluta di una composizione dal titolo alquanto curioso: Giorgio Marni. Ne è autore il livornese Marco Lenzi, secondo le parole di Marcello Fera (direttore dell'Ensemble Conductus) “artista che occupa una posizione di totale indipendenza, perché con lievità e seria convinzione ha fatto sue alcune istanze di maestri e movimenti d'avanguardia (Cage, Fluxus) radicalmente liberi e ugualitari”. “Lenzi – è ancora Fera a parlare – esprime un umanesimo radicalmente anti-idolatra, una forte attitudine a coinvolegere sotto un profilo ad un tempo estetico ed etico qualsiasi reperto del calderone pop della nostra società, oltre a rivelare una carica di irresistibile simpatia”. Allo scopo di sondare questa irresistibile carica di simpatia, e scoprire qualcosa in più su Giorgio Marni, l'abbiamo intervistato.
salto.bz: Come ha conosciuto Marcello Fera, com'è nata questa collaborazione?
Marco Lenzi: Ci siamo conosciuti su Facebook, così come avvengono molte delle conoscenze al giorno d'oggi. Abbiamo cominciato a parlare, abbiamo scoperto molti punti in comune, e alla fine è nata la proposta – da parte sua – di eseguire una mia nuova composizione qui in Alto Adige.
Una composizione dal titolo, come dire, un po' stravagante...
Bisognerebbe dilungarsi parecchio sul concetto di “stranezza”, applicato alla musica. Ma io preferirei parlare di “spaesamento”.
Ancora molto vago, non trova? A cosa allude questo “spaesamento”? Forse a quello del pubblico che verrà a sentire la sua composizione?
[Ride] Beh, sì, forse anche a quello. Ma in primo luogo alludo al mio, di “spaesamento”. Ciò che intendo e che mi propongo non è realizzare una musica-oggetto che poi starebbe lì davanti, da osservare (ascoltare) attentamente vagliandone le parti, soppesandone gli elementi e infine producendo il giudizio estetico, bensì qualcosa che, prima ancora di essere un pezzo di musica, è un'esperienza estraniante, che non è possibile giudicare da un punto di vista meramente estetico. Per apprezzarla, ecco cosa voglio dire, diventa necessario convocare diverse altre categorie.
Categorie non strettamente musicali, quindi?
Sì. Anzi, se devo dire proprio quello che penso (e io in genere dico quello che penso), ritengo che uno dei difetti della musica colta contemporanea sia proprio questa mancaza di osmosi con il suo “esterno”.
Come se fosse intrappolata dentro se stessa?
Esatto. Sono sempre stato convinto che un eccesso di professionismo (e la musica è forse la disciplina che più di ogni altra spinge verso un tale eccesso) porti presto in un vicolo cieco. Chi ragiona solo in termini musicali, interni al fatto musicale, finisce per non vedere più niente del resto, e il resto, per quanto mi riguarda, alla fine è più importante della musica stessa.
Ma come dobbiamo figurarcele queste benedette categorie extra-musicali, che cos'è propriamente “il resto” del quale parla? Non rischiamo di fare come quei filosofi che, per tematizzare l'essere, ci invitano a partire dal nulla che in qualche modo lo includerebbe? La sua musica parla forse del nulla?
Non è indispensabile scomodare Sartre o Heidegger. I primi riferimenti che mi vengono in mente sono piuttosto Morton Feldman e Franz Kafka. Il primo – sul quale ho lavorato moltissimo – diceva che l'arte (e lui intendeva l'arte astratta, della quale la musica è senz'altro espressione) è una metafora priva di risposta; il secondo, invece, quando lo leggi magari ti dà l'impressione di essere incomprensibile, ma in realtà si capisce esattamente quello che voleva dire. Anch'io, molto modestamente, punto a qualcosa di simile, ossia a segnalare questo tipo di scarto.
Scendiamo allora un po' nel dettaglio. Cos'è Giorgio Marni, ci rivela finalmente il mistero?
Nessun mistero. Il titolo è ispirato al protagonista di uno sceneggiato degli anni Settanta (un periodo al quale sono visceralmente legato): Albert e l'uomo nero. Ho concepito il pezzo come una sequenza numerica di “scenette teatrali senza spettacolo” (come vede ritorna la poetica dello scarto), frammenti costruiti con uno stile abbastanza minimalista, ma più spigoloso, vorrei dire quasi “grottesco”, meccanico: una giostra di plastica. Il linguaggio, per usare un termine tecnico, è politonale, ossia una via di mezzo tra la consonanza e la dissonanza.
L'ennesimo scarto...
Sì, ma ancora una volta un espediente formale per mostrare lo scarto più radicale, quello tra arte e vita, che a mio avviso può essere colto con una buona dose di ironia. Del resto solo adoperando l'ironia (e l'autoironia) è possibile parlare dell'indicibile, non trova?
A questo punto potrebbe elencarci le esperienze che l'hanno condotta a perseguire la sua ricerca musicale? Saranno mica esperienze caratterizzate da molti altri scarti?
Esatto [Ride]. Le pietre miliari del mio cammino, un po' alla rinfusa, sono: l'attaccamento ossessivo all'infanzia e all'immaginario culturale a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta (ma senza Fanciullino o mitologie regressive, solo occhi per immagini); l'amore per poesia, musica e arti visive, distribuito in parti uguali e indipendentemente dal fatto che nella pratica abbia prevalso una sulle altre; la Rai, fino alla riforma del 1976; il pop, o meglio alcuni suoi vertici, come per esempio Syd Barrett; il dilettantismo, come approccio globale. E ovviamente la lezione del mio maestro, Aldo Clementi, che acquista sempre più importanza nel tempo. Mescolando questi ingredienti è possibile trovarmi.
Mentre cerchiamo di trovarla, lei sarebbe capace di trovare per noi una formula in grado di sintetizzare questo curioso e dilettantesco guazzabuglio globale punteggiato di scarti?
Devo proprio? Mi faccia riflettere. Ah, sì, ecco. Post-modern, ma con un certo rammarico. Lo usi pure come titolo del suo articolo.
Nota biografica: Marco Lenzi (Livorno, 1967) ha compiuto studi musicali all’Istituto ‘Mascagni’ di Livorno e filosofici all’Università di Pisa, dedicandosi in seguito all’insegnamento, alla composizione e alla ricerca musicologica. Le sue composizioni, edite da Ars Publica, sono state eseguite, oltre che in Italia, in Germania, Grecia, Regno Unito e Stati Uniti. Ha pubblicato, oltre a vari saggi e articoli su riviste specializzate, la prima monografia italiana su Morton Feldman. Insegna nella scuola pubblica dal 1992.