"Non esistono poveri di serie B"
La scelta di nominare Franz Kripp quale nuovo direttore della Caritas Diocesana è tutt’altro che un avvicendamento come tanti all’interno della chiesa locale, perché tocca due tasti delicati che riguardano tutta la realtà altoatesina. La prevista fusione, fra due anni, delle due sezioni tedesca ed italiana della Caritas è infatti tutt’altro che un passaggio pro forma. Chi conosce le vicende della chiesa locale sa quanto anche all’interno del mondo ecclesiale per decenni il principio del ‘dividere per promuovere la convivenza’ sia stato un paradigma fortemente voluto, più che obbligato. La fusione dunque sarà quindi tutt’altro che indolore ed avrà conseguenze importanti nel mondo della solidarietà altoatesina.
Il secondo motivo che pone la Caritas al centro dell’attenzione è scritto nella cronaca di questi giorni. L’opinione pubblica è consapevole del fatto che l’attuale dramma dei profughi sta provocando conseguenze significative anche per la realtà altoatesina. E nel contesto del lavoro con le povertà ed i diritti degli ‘ultimi’ la Caritas ricopre già oggi un ruolo cruciale, destinato in futuro a destinare ancora più determinante.
Per affrontare queste due questioni abbiamo quindi pensato di interpellare direttamente Franz Kripp, per porgli alcune domande in merito.
Franz Kripp, dopo anni di piccoli passi dunque la diocesi ha deciso di porre finalmente una deadline per quanto riguarda la prevista fusione delle due sezioni della Caritas diocesana. Qual è stato il passaggio decisivo che recentemente ha promosso questa scelta?
Nel gennaio scorso sono arrivate le dimissioni di Heiner Schweigkofler e la diocesi ha cercato una persona che conoscesse sia la realtà tedesca che quella italiana, ma soprattutto avesse familiarità con i meccanismi interni della chiesa locale. Nello specifico curia, struttura della diocesi e funzionamento della Caritas. L’obiettivo è quello di portare a compimento la combinazione di due entità finora distinte che si portano dietro la storia della nostra terra. Una parte è stata pastoralmente sempre orientata dalla Conferenza Episcopale Italiana, la sezione tedesca invece ha guardato un po’ all’Austria, ma anche alla Svizzera e alla Germania. A dare la nuova spinta all’idea di unire le due sezioni è giunta con il sinodo che ha rilanciato la parola ’insieme’ come una domanda, ma anche come obiettivo da raggiungere. Per i prossimi due anni io e Paolo Valente ‘in solidum’ come si dice nella chiesa, quindi in responsabilità comune e condivisa, lavoreremo proprio in questa questa direzione.
Nei mondi italiano e tedesco la Caritas è caratterizzata non solo da concezioni diverse, ma anche da dimensioni, forze e spinte motivazionali differenti. A frenare la fusione in questi anni è stato proprio il timore che per la sezione italiana della Caritas si trattasse di fato di una sorta di assorbimento.
Quello che vogliamo evitare è proprio che una parte si senta inglobata dall’altra. la nuova realtà che vogliamo sviluppare contiene invece parti che provengono da concezione tra virgolette ‘tedesca’ e parti, di nuovo tra virgolette, concepite in una maniera più ‘italiana’. Io e Paolo Valente nello specifico ci siamo posti l’obiettivo di dimostrare che questo è possibile.
La Caritas diocesana è un organismo complesso che, immaginiamo, nei prossimi anni dovrà essere sottoposto ad un processo di razionalizzazione dei servizi all’insegna di una spending review interna alla chiesa. Quali sono le priorità da mantenere per quanto riguarda i servizi offerti?
Nei documenti della chiesa si parla di ‘opere segno’. È questa la base comune tra le due concezioni, quindi si tratta di vedere in futuro quali sono le strutture su cui è importante che la Caritas si concentri, a prescindere dal fatto che poi nello specifico sia affidata ad Odar (sezione italiana) oppure la Stiftung Caritas (sezione tedesca). Porto l’esempio della casa Emmaus per i malati di Aids, ideata da don Giancarlo Bertagnolli e poi realizzata da Caritas e Provincia. Oppure quello di Casa Margareth per le donne senza fissa dimora, in questo caso ideata dalla San Vincenzo con mons.Egger ed inaugurata nel 1996 in occasione dei 200 anni dal voto del Sacro Cuore.
Tra le varie emergenze salta all’occhio in questi giorni quella, epocale, legata all’immigrazione ed ai suoi aspetti più drammatici, cioè quelli dei profughi e rifugiati. Qual è il compito che si sente chiamata a svolgere in merito la chiesa cattolica? La questione non semplice: da una parte ci sono i cristiani perseguitati e dall’altra la maggioranza dei profughi e rifugiati che sono di religione musulmana. Che fare? Con gli enti pubblici esiste un dialogo che consenta ad ognuno di agire in maniera coordinata e secondo le specifiche competenze?
Non sono ancora entrato in servizio e quindi non posso giudicare quelle che al momento le relazioni esistenti tra Caritas ed istituzioni pubbliche. Però posso dire che il ruolo della chiesa, indipendentemente dal fatto che si parli di oggi o di 20 anni fa, è quello di portare l’attenzione pubblica e del singolo alle povertà che provengono dall’immigrazione. Si tratta di una prospettiva indipendente dall’origine geografica o dalla provenienza religiosa delle persone che ci raggiungono. Sappiamo infatti che il cristianesimo va oltre le sbarre che ci limitano lo sguardo sugli ‘altri’. Il ruolo della chiesa in questo contesto per me è, e rimane, quello di essere a supporto di Provincia e istituzioni pubbliche, perché il ‘pubblico’ non può arrivare dappertutto. Faccio un esempio: gli enti pubblici possono riuscire in breve tempo a rendere operativa una caserma per ospitare 100 persone. Per il pubblico però è più difficile trovare gente che all’interno della struttura realizzi poi corsi lingua e di mediazione culturale. Caritas può essere preziosa anche con altri servizi, com’è avvenuto a suo tempo a Malles dove abbiamo realizzato una sorta di Kindergarten perché tra i profughi c’erano anche dei bambini. Caritas può anche svolgere un altro compito importantissimo e cioè quello di mediare tra la situazione dei profughi e il paese o comune che li ospita. Con lo scopo di promuovere le condizioni affinché si creino relazioni positive tra i profughi ospitati e la popolazione locale.
In Alto Adige l’accoglienza di poveri che vengono da lontano si confronta con il benessere diffuso della popolazione locale. L’attuale emergenza, con la necessità di strumenti adeguati per accogliere la massa dei disperati, va al di là delle consuetudini di carità veicolate da San Vincenzo, Caritas ed altre associazioni laiche come Volontarius. Cosa si può fare in più? La società altoatesina ha le forze, anche morali, per cedere una parte del suo benessere in nome una domanda di solidarietà molto maggiore rispetto al consueto?
Io credo di sì. Ma è necessario che la gente sia bene informata. Se perde la paura dello straniero la gente è disposta a dare. Magari in questo momento non dispone di molti soldi, ma può sempre fornire un aiuto. Servizi insomma: assistere, accompagnare, insegnare, ecc. Penso all’esperienza che ho fatto a suo tempo con i nomadi alla caserma di Varna dove i gruppi locali delle Acli Kvw e San Vincenzo si sono coinvolti per aiutare e dare sostegno a quelle persone. Ha voluto dire condividere una parte della propria la vita, offrendo un aiuto concreto attraverso la propria sensibilità ed umanità.