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"Io, un 'compagno' di confine"

Cinquant'anni fa Josef Perkmann divenne il primo co-segretario di lingua tedesca della CGIL. Dagli inizi con Langer alla delusione in politica, questo il suo percorso.
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Foto: Cgil Agb

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, per un lavoratore di lingua tedesca era molto difficile – per non dire quasi impossibile – essere assunto nelle grandi fabbriche della zona industriale di Bolzano. Oggi si fa fatica ad immaginarlo ma allora il “ghetto italiano” era letteralmente off limits pure per i sindacalisti di lingua tedesca. Tra i primi a metterci piede vi fu Josef Perkmann (il primo a sinistra nella foto di apertura, didascalia completa in fondo, ndr) che in pochi anni, appoggiato in particolare da Marco Garau, riuscì a fare della Cgil un sindacato progressivamente sempre più interetnico. Amico di Langer ai tempi di Die Brücke, Perkmann fu senza dubbio uno dei pochi “saltatori di muri” di quel periodo. Cinquant’anni fa, nel 1973, divenne il primo co-segretario di lingua tedesca della CGIL, che da quel momento iniziò a chiamarsi anche AGB. Oggi, a 79 anni, l’ex sindacalista traccia un bilancio della sua attività politico sindacale.

A quel punto ho tracciato una linea rossa invalicabile che era quella della violenza politica. Ho iniziato ad avere posizioni pacifiste, antifasciste e antinaziste.

Salto.bz: Perkmann, quando è cominciata la sua attività politica e sindacale?

Josef Perkmann: Nel 71 ho iniziato l’attività politica e la vita matrimoniale, ma mi sono sempre interessato di politica anche prima, pur senza ricoprire ruoli importanti. Io sono uno di quei comunisti che veniva dalla parrocchia. Chi mi ha aperto la porta per accedere alla scuola, che doveva essere aperta a tutti – allora sulla carta - era la Chiesa, che mi ha mandato a 14 anni nel seminario vescovile della diocesi di Trento, che si trovava nel bel paesotto di Tirolo sopra Merano e si chiamava Johanneum. In prima media eravamo in 42 e tutti avevamo in qualche modo l’intenzione di diventare preti di campagna. Alla fine solo due hanno raggiunto questo obiettivo. Tutti gli altri sono diventati operai, artigiani, negozianti, giuristi, medici e bravi impiegati. Ora siamo rimasti in pochi, ma siamo ancora amici e ci troviamo ogni tanto. Per la nostra estrazione sociale questo percorso attraverso le istituzioni ecclesiastiche era quasi l’unico modo per avere accesso ad una formazione culturale oltre il livello elementare. Dopo i cinque anni presso il Johanneum ho fatto il liceo classico a Merano e lì ho iniziato a interessarmi di politica. Al liceo non si parlava apertamente di politica però tra amici e al di fuori se ne parlava. Al tempo c'era una forte  politicizzazione soprattutto di destra perché negli anni ’63 ‘64 si era nel pieno degli attentati ai tralicci. Per dirne solo una, non poteva sfuggirci che noi dovevamo entrare in classe mezz'ora prima degli italiani, perché altrimenti, ci spiegavano, “arrivate alle mani”. La mia formazione politica è iniziata lì, perché a quel punto ho tracciato una linea rossa invalicabile che era quella della violenza politica. Ho iniziato ad avere posizioni pacifiste, antifasciste e antinaziste. Mi sentivo di sinistra ed ero sicuro che non avrei mai avuto un fucile in mano. All’università come studenti sudtirolesi avevamo un gruppo organizzato, come del resto tutti gli studenti provenienti dai vari Länder, compresi i tirolesi (noi eravamo i figli del “decimo” Bundesland), ma non eravamo isolati, eravamo quelli della “campagna” che si distinguevano al massimo dai “Viennesi” perché metropolitani. Nella Südtiroler Hochschülerschaft di allora c’erano Bruno Hosp, Luis Durnwalder … e tra di noi c’erano anche quelli che facevano il tifo per Klotz, Amplatz e gli altri terroristi. Io ero tra quelli che ritenevano sbagliato il ricorso alla violenza ed allo stesso tempo non avevo fiducia che le trattative per la nuova autonomia potessero andare in porto.  Se devo essere sincero sono rimasto scettico fino al 72.  A Vienna ho provato a prendere contatti con i giovani socialisti intorno a Bruno Kreisky  ma era difficilissimo. Noi eravamo i "tirolesi" e bollati quindi come "conservatori di provincia".

 

Le piace: Perkmann, il compagno uscito dalla parrocchia?

Un compagno "di confine" mi piacerebbe di più, perché pur essendo nato in un ambiente molto cattolico e molto contadino ho sviluppato una forte curiosità per gli “altri”, per  coloro che erano al di là dei confini tracciati dai “miei”.  Volevo sapere chi sono “gli italiani” descritti come cattivi, furbi, oppressori e “nemici” della nostra gente. Quindi ho guardato oltre la frontiera etnica senza sapere quasi niente degli italiani e dell’Italia, e ho trovato uomini e donne e non solo carabinieri, fascisti e furbacchioni. Volevo anche sapere chi sono i “comunisti” che per sentito dire erano più cattivi degli italiani, portavano via ai contadini l’ultima vacca e facevano fare la fame ai prigionieri di guerra, tra i quali vi erano anche parecchi figli dei masi vicini. Ho avuto la possibilità di conoscere anche i comunisti, non solo quelli italiani, ma anche qualcuno dell’est europeo, in particolare della DDR, quelli del Cile e della Francia. Passando la cortina di ferro che ci separava dai paesi comunisti dell’Est, e non accontentandomi della propaganda di turno, ho capito che i comunisti avevano tante buone ragioni per essere arrabbiati e che erano portatori di grandi speranze. Gli uomini e le donne comuniste mi hanno impressionato tanto che sono diventato uno di loro.

Torniamo al suo percorso di formazione. Da Vienna poi lei è arrivato a Padova, giusto?

Sì esatto, mi sono iscritto a Giurisprudenza a Padova. I sudtirolesi erano una cinquantina e devo dire che all’epoca eravamo parecchio isolati. Era perfino difficile invitare qualche ragazza “Italiana” al nostro piccolo ballo di Carnevale ... . Gli italiani ci chiamavano “tritolesi” e noi all’inizio ci sentivamo a casa del nemico. Ma dovevamo formarci e quindi abbiamo fatto un compromesso, e per un po' siamo rimasti chiusi nel nostro ghetto tirolese.  Nei primi mesi del 68 siamo stati avvicinati dai maoisti padovani come Elio Franzin e il professor Quaranta (autori, nol 1970, del libro "L'attentato e lo scioglimento del parlamento" edito da Giovanni Ventura) e anche se eravamo scettici ci hanno un po’ abbindolati. C’era anche qualche ex partigiano e per noi quello era diventato il solo ambiente amichevole. Ci vedevamo alla mensa della Cgil, dove si mangiava bene per poco. “Andiamo a mangiare dai comunisti”, ci dicevamo. Da rappresentante del gruppo degli universitari sudtirolesi di Padova  ho scritto qualche articolo sul Dolomiten per dire che le proteste studentesche avevano un fondamento, e anche se la redazione del giornale era scettica, ho cercato di spiegarne i motivi. Poi ad un certo punto anche alla Südtiroler Hochschuelerschaft sono cominciati a venire fuori dei nuovi volti e i primi fermenti. Era uso e costume chiamare dei relatori per fare lezioni per gli studenti. Allora ovviamente era obbligatorio chiamare qualcuno della Volkspartei. Dietl non venne, ma venne invece Alfons Benedikter e ci fece una buona impressione, e così Reinhold Steger, allora assessore all'agricoltura, che ci piacque ancora di più perché tutti quanti eravamo in qualche modo di estrazione rurale. A quel tempo ho conosciuto anche Alex Langer, che studiava a Firenze. Il presidente della SH era Luis Durnwalder e Langer lo contestava con decisione. Noi padovani allora ci eravamo schierati in buona parte con Langer.

 

Fu allora che avete organizzato il celebre convegno “interetnico”? 

Sì, nel 68 la SH ha organizzato un convegno di studi prima in Austria e poi a Bressanone. Al convegno austriaco, durante la relazione molto tradizionalista del vicecapitano del Tirolo, che stava molto stretta a molti dei partecipanti, vennero Langer e Siegfried Stuffer con dei cartelli a protestare contro quel tipo di convegno. Lì ho preso i contatti con loro che facevano la Brücke e dopo poco sono entrato nel gruppo redazionale.  La seconda  parte di quel convegno venne fatta alla Cusanus di Bressanone. Il direttivo aveva stranamente incaricato me di organizzare tutto. Ho così cercato di allargare la platea degli interlocutori. Mi sono detto: se vogliamo sapere chi siamo e che cosa è l’Alto Adige, dobbiamo sentire anche gli altri: gli italiani e i comunisti. Quindi ho invitato come relatori democristiani, socialisti e comunisti italiani, cioè Lidia Menapace, Anselmo Gouthier e Claudio Nolet accanto a personaggi di provata origine tirolese, sorpassando volutamente il tabu degli “italiani” e della “sinistra”. Quando il Dolomiten vide gli invitati, il giorno prima dell’inizio del convegno Toni Ebner fece un editoriale in cui mi bollava come comunista e anarchico di cui non ci si poteva fidare. Il convegno fu affollatissimo. Si trattò del primo confronto tra “diversi”.

Una parte dei redattori di lingua tedesca di Die Brücke aveva una visione più patriottica. Io ed anche Langer, forse perché avevamo studiato in italia, avevamo una visione più aperta

Come descriverebbe l’esperienza in Die Brücke?

Fu un’esperienza importante. Nell’estate ’68, prima del convegno, scrissi un articolo dedicato al mondo contadino intitolato Poverty class in cui criticavo aspramente il piano Mansholt (vicepresidente della Commissione europea con delega all’agricoltura) che favoriva gli agricoltori con grandi appezzamenti e colture intensive a scapito dei “piccoli”. L’articolo fece molto clamore e si accese un grande dibattito... Die Brücke non era un gruppo politico e non si andava d’accordo su tutto. Quello che ci accomunava è che eravamo tutte persone a cui andava stretta la mentalità ristretta di allora. Langer aveva la leadership “politica” completa ma non tutti erano d’accordo con lui. Alex, ad esempio, ha lavorato per fare di Die Brücke un prodotto bilingue, ma su questo punto è stato molto contrastato da Siegfried Stuffer e Josef Schmid (nomi corretti alle 7.56, ndr) .  Io, come Langer, ero convinto che dovevamo trovare il modo per comunicare anche col mondo italiano, ed è quello che ho cercato di fare a partire da quel convegno della SH. Il filo che univa molti, italiani e tedeschi, a partire da Langer, era l’essere dei comunisti usciti dalle parrocchie. Ma a livello redazionale dentro a Die Brücke questo non funzionava sempre bene. Una parte dei redattori di lingua tedesca aveva una visione più patriottica. Io ed anche Langer, forse perché avevamo studiato in italia, avevamo una visione più aperta, e per alcuni eravamo dei traditori.  Nel frattempo era scoppiato il ‘68. Abbiamo subito visto che c’era gente facilmente disposta a superare la linea rossa della violenza. E anche i maoisti a quel punto non ci sono andati più a genio. Più di qualcuno aveva cercato ripetutamente di strumentalizzarci. Alcuni vedevano in noi un anello di congiunzione con Klotz e Amplatz per far scattare la rivoluzione in Alto Adige ….  

 

Questo era anche il convincimento di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore deceduto per lo scoppio di un ordigno ai piedi  di un traliccio dell’alta tensione nel 1972.

Sì, esattamente. A Padova c’erano dei personaggi che ci vedevano come dei possibili galoppini per creare contatti con i terroristi sudtirolesi degli anni 60. Così ho interrotto brutalmente i contatti con quel mondo. In quegli anni abbiamo anche dovuto difenderci da qualche tentativo di avvicinamento da parte dei servizi segreti, che non erano poi così bravi a restare segreti. Non ci siamo cascati anche grazie alle esperienze e i contatti viennnesi, in particolare con Claus Gatterer, che ci ha dato qualche consiglio. Nel 69 fui per l’appunto tra gli invitati ad un seminario politico condotto da Giangiacomo Feltrinelli a Mazzon di Egna. Anche lui fece delle proposte piuttosto preoccupanti, perché era convinto che qui in Alto Adige, zona calda, si sarebbe dovuti partire con una ribellione che poi doveva diventare armata … Io la lotta armata non volevo neanche sentirla nominare. Feltrinelli ci era parso un borghese che voleva giocare alla rivoluzione anche a nostre spese.  Qualche tempo dopo, Alex Langer, durante un viaggio in macchina, mi disse che sarebbe entrato in Lotta continua. A me quel movimento non piaceva. Mi avvicinai quindi alla FGCI e al Psiup. Il perimetro era quello, per me. Mi sentivo di orientamento socialdemocratico: Willy Brandt per me era un personaggio affidabile. E così anche i leader del PCI, Longo e poi Berlinguer. Questi per me erano politici in gamba. Noi eravamo coscienti che come sudtirolesi saremmo stati al sicuro se in Italia avesse tenuto la democrazia e quindi ci appoggiavamo alle forze di sinistra democratiche.

Comunque lei allora era indeciso se entrare nel partito comunista o nel PSIUP?

Sì, ma la scelta la feci già a Padova e mi decisi per il PCI e a livello sindacale per la CGIL. Purtroppo nell’impazzimento del 1968 mollai gli studi di Giurisprudenza quando mi mancavano tre esami. Poi ho perso il diritto alla borsa di studio, ed essendo alle strette finanziariamente, andai insegnare. Cercavano tanti supplenti, quindi sono andato a insegnare tedesco e geografia alla scuola media appena istituita a Lana. E da lì la CGIL mi ha fatto una proposta di iniziare a lavorare all'ufficio vertenze. Poi gli esami universitari li ho fatti a 60 anni. Ciò che mi ha impressionato di più è che dopo 40 anni sono riuscito a far riconoscere tutti gli esami e ho fatto gli ultimi tre che mi mancavano. Ma all’università ho scoperto che c’era lo stesso andazzo che avevo lasciato 30 anni prima e quindi ho fatto buon viso a cattivo gioco. Mi sono laureato e buonanotte.  

Sappiamo com’era il clima nei primi anni Settanta a Milano, ma anche a Padova. E a Bolzano? Che aria tirava?  

Il clima di tensione c'era anche a Bolzano, ma ovviamente non ai livelli di altre città. La rabbia per le stragi che allora già definivamo "di stato" era fortissima. Ma il confine della violenza, anche in piazza, per quasi tutti era invalicabile. Può essere che qualcuno anche da noi pensasse di reagire imbracciando il fucile, ma io sono sempre andato in piazza con l’intento di sostenere le cause di una convivenza civile.

 

Peraltro, lei, da attivista sindacale e membro del PCI era considerato un venduto da parte della sinistra extraparlamentare. 

Esattamente. Nelle manifestazioni c’era sempre qualche tensione. Noi eravamo ad esempio contrari a usare immagini forti come i padroni impiccati. La CGIL all’epoca aveva una posizione molto chiara. Il nostro garante era Marco Garau (scomparso nel 2018 a 90 anni), il segretario provinciale più ascoltato dai comunisti. Era un vero personaggio, molto preparato, che aveva fatto tre anni di Accademia Sociale a Mosca, mandato dal PCI, e non era per niente dogmatico. Garau era uno di quelli con i quali si poteva discutere e analizzare oggettivamente le situazioni. Non era molto popolare, però, tra i movimentisti della sinistra extraparlamentare, che lui chiamava i gruppettari, “rivoluzionari del sabato sera”.  Garau anche in questo caso per me fece testo.

Lei e anche i suoi compagni del PCI e della Cgil vi sentivate si sinistra-sinistra. Come vivevate questi attacchi dalla sinistra extraparlamentare?

Con grande pazienza. Conoscevamo le nostre pecore, Bolzano è piccola. In Alto Adige le frizioni c’erano ma forse un po’ meno accentuate che altrove. La sinistra extraparlamentare anche qui cercava di inasprire la lotta, ma realtà come le Brigate rosse, che in certe aree industriali godevano di grande seguito, qui da noi avevano un basso numero di simpatizzanti. Gli insulti che provenivano dall’ estrema sinistra – che così estrema poi non era nemmeno, piuttosto di buona famiglia e un po’ parolaia - ci impressionavano modestamente. Gli attacchi più feroci provenivano in realtà dalla destra tedesca locale, dalla “Wehrmachtgeneration”, che ci accusava di ben altre cose, di essere i traditori della patria, i portaborse degli italiani nazionalisti camuffati di retorica di sinistra, di essere delle pedine della DDR e comunque nemici di tutti quelli che riuscivano a farsi una prima casa.  Noi della Cgil ci siamo difesi, dicendo che eravamo ben dei comunisti, rossi e combattivi, ma in questo modo tra i lavoratori sudtirolesi si spargeva anche la voce che bisognava andare dai “comunisti” per vincere una causa di lavoro. Abbiamo trasformato il nostro punto debole in un punto di forza, che i nostri avversari non si aspettavano.  Abbiamo iniziato ad avviare l’attività sindacale nelle fabbriche delle valli per raggiungere i nuovi lavoratori di lingua tedesca, e far capire che cosa prevedeva, ad esempio, lo Statuto dei lavoratori da poco approvato. All’inizio ci guardavano strano ma poi è andato tutto abbastanza bene. Eravamo ben amalgamati. C’era qualcuno di noi che aveva la quinta elementare e si era formato con qualche corso sindacale nella DDR. Ma io ad esempio ero diventato piuttosto bravo a fare i volantini avvalendomi della collaborazione di un compagno che aveva per l’appunto la quinta elementare. Gli ho dato il testo da leggere e ho cambiato le frasi fin quando gli piacevano. Quando il volantino o la notizia piaceva a lui, di solito piaceva anche agli altri. E di volantini ne abbiamo fatti parecchi.

Siamo stati una famiglia di lingua tedesca interessata alla cultura italiana. Oggi mio figlio ha ad esempio fatto fare a mio nipote l’asilo italiano, e la cosa funziona.

Ma è vero che lei invece delle ninne nanne cantava ai figli le canzoni della resistenza, delle mondine e dei cantautori della sinistra?  

(Ride di gusto). Sì, io e mia moglie eravamo molto interessati alla cultura della sinistra italiana di quegli anni. Noi ascoltavamo molta musica, suonavamo i dischi della Resistenza, Bella ciao, il folklore di sinistra e molti cantautori di quell’epoca. Quindi, sì, confermo, i miei figli possono aver sentito spesso quelle musiche. Siamo stati una famiglia di lingua tedesca interessata alla cultura italiana. Oggi mio figlio ha ad esempio fatto fare a mio nipote l’asilo italiano, e la cosa funziona. L’altro giorno il piccolo è venuto da me e mi ha detto: “nonno, ti faccio vedere una cosa strabiliante”. Mi sono stupito della sua buona pronuncia. Permettendosi questo lusso tra le nostre montagne tirolesi si può rischiare l’accusa di essere un traditore della patria, di essere un tifoso dell’italianità, ma lo considero un rischio culturale, che si può tranquillamente correre.

 

Come si arrivò alla CGIL/AGB? 

Quando tornai da Padova a Bolzano, vari esponenti Svp mi chiesero di entrare nel loro partito, ma non me la sentivo. Nemmeno Egmont Jenny mi convinceva. Così mi avvicinai subito al PCI e alla Cgil. I rapporti tra italiani e tedeschi all’epoca non erano facili quasi da nessuna parte, neppure nel sindacato. Gli italiani della Cgil erano spesso molto “italiani” e legati alle province di provenienza, si trovano spaesati. Ancora negli anni Settanta nella zona industriale di Bolzano chi portava un cognome tedesco non entrava, le porte erano chiuse. Le assunzioni venivano fatte tra italiani. E lo stesso in molti posti pubblici, come nelle Ferrovie, e così anche per le assegnazioni delle case popolari. Ci è voluto parecchio tempo perché noi potessimo andare tranquillamente nella zona industriale. C’erano anche molti esponenti dei partiti di lingua tedesca, anche di sinistra, che ci criticavano per la nostra attività sindacale. Ma in realtà crescemmo in fretta. Era il periodo in cui in Germania il Sudtirolo si presentava come una terra dei salari bassi (Niedriglohnland) e diversi imprenditori tessili provavano a insediare le loro fabbriche perché le lavoratrici non erano sindacalizzate. Abbiamo lottato con una serie di vertenze alle quali è seguita la chiusura delle fabbriche  e il Dolomiten ci ha criticato pesantemente perché eravamo dei nemici della industrializzazione. Ma era giusto rifiutare sin dall’inizio quella prassi di politica salariale. Nel 1973 la CGIL ha cercato di uscire dalla stretta cerchia della zona industriale di Bolzano per diventare un sindacato di tutta la provincia. Anche per me da quell’anno in poi sono cambiate le cose. Dovevo seguire alcune categorie minori come i tessili, i chimici e i tipografi, ma nel contempo lavoravo già per la Camera del Lavoro affiancando Giuseppe Tinaglia nella Segreteria Provinciale della CGIL/AGB, che aveva cambiato la sua denominazione, presentandosi con la sigla bilingue per marcare l’intenzione di essere un sindacato di tutti i gruppi etnici.

L’esperienza nel PCI come è stata?

La mia esperienza nel PCI è stata piuttosto deludente. Ho fatto per 5 anni il consigliere comunale a Bolzano, fino al 1985. Ho presto capito che la cosa non poteva reggere perché ero costretto ad essere votato dall'elettorato italiano e di conseguenza dovevo rispondere anche all’elettorato italiano. Mi ero reso conto che per essere coerente con me stesso per le Provinciali dell'83 avrei dovuto dichiararmi italiano e battermi per la causa “italiana”. Quando i fascisti sono andati a fare i conti e hanno iniziato a dire: se date il voto ai tedeschi Perkmann e Langer gli italiani perdono 2000 posti di lavoro in provincia, la faccenda si è complicata parecchio. E non era neanche una balla, nessuno poteva dire che non fosse vero. La proporzionale in Provincia era calcolata in quel modo lì. Ad ogni modo non mi dichiarai italiano. E non fu una buona idea candidarmi con il PCI, l’esperimento di votare un italiano e un tedesco non funzionò anche perché nel PCI di Bolzano non tutti erano d’accordo. Il partito poi perse parecchi voti e mancammo l’elezione del terzo consigliere, che avrei dovuto essere io, per 500 voti. Dopo il 1985 uscìi dal partito e non tornai neppure nel sindacato, anche se ovviamente me lo chiesero.

Perché?

Perché non volevo tornare nel sindacato con il peso di un fallimento politico. Non cercavo né un posto sicuro, né un salvataggio comodo dopo un’avventura politica fallimentare. Quindi sono uscito del tutto e mi sono messo a lavorare nel settore bancario/assicurativo, il che non era facile. Sono rientrato nel sindacato pensionati della CGIL/AGB dopo il mio pensionamento come semplice iscritto e senza cariche di rilievo. Sono contento di non essere stato un peso per il sindacato, che ho contribuito a costruire negli anni 70, negli anni migliori della mia vita.

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Josef Perkmann Dom, 04/23/2023 - 07:37

Una breve correzione: i redattori del periodico die brücke poco convinti dell'utilità di pubblicare articoli in italiano non erano "Stuffer e Stecher", ma Siegfried Stuffer e Josef Schmid.

Dom, 04/23/2023 - 07:37 Collegamento permanente
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Josef Perkmann Dom, 04/23/2023 - 10:01

Ihren Hinweis finde ich recht gut, Herr Salzer. Man müsste sich nur darauf einigen, aus welcher Perspektive man über den Kommunismus sowjetischer Prägung reden möchte. Es gäbe auch die Sicht aus dem Südtiroler Krähwinkel...was bis ins Sarntal und zu den Steinernen Mandln von Breschnews Kommunismus vorgedrungen ist. Das wäre doch ein kreativer Ansatz. Aber welche Plattform gibt sich dafür her?

Dom, 04/23/2023 - 10:01 Collegamento permanente
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Salzer Claudio Dom, 04/23/2023 - 11:05

In risposta a di Josef Perkmann

Wir können‘s ja hier probieren - und danke für Ihr Feedback.
Ich bin im Unterschied zu Ihnen weder Akteur noch Experte des Politisch-Gesellschaftlichen, sondern bestenfalls Passagier der Zeitgeschichte, dessen Perspektive ich anbieten kann.
Als ich ein Kind war, gab es Brezhnev noch, und im Tauwetter der späten 1970er schaute die Welt ja relativ freundlich aus - vor allem wenn man sie aus ihrem Zentrum betrachtete, welches sich bekanntlich – und Sie sagen es – irgendwo zwischen Stoanernen Mandln und Montiggl befindet.
Die Europäische Linke sympathisierte mehr oder weniger offen mit den Genossen im Osten. Sie konnte damit aber sicherlich nur den Kommunismus als Utopie meinen, niemals dessen tatsächliche, wahrlich „russische“ Umsetzung, in deren harscher Realität sie vermutlich keinen einzigen Tag glücklich geworden wäre.
Je länger nun der Untergang des sowjetischen Ostens zurückliegt, desto mehr wird der Blick frei auf das gesamte Panorama des letzten Jahrhunderts aus europäischer Sicht. In diesem Kontext - und auch aktuell - erscheint der Sowjetkommunismus zunehmend nur mehr als die Fortsetzung der russisch-romanowschen Hegemonie - unter dem neuen Banner des Marxismus. Spätestens mit Stalin war man dort angekommen wohin sich auch die Deutschen - quasi unter österreichischer Leitung - begeben hatten: in einer „lupenreinen“ Diktatur und menschenverachtenden Gewaltherrschaft, deren katastrophale Auswirkungen bis heute überdeutlich im Raum stehen. Sicher spielten in der Sowjet-Sphäre ökonomisch-gesellschaftlich die marxistischen Prinzipien eine Rolle, aber politische Unfreiheit und Unterdrückung wogen wohl stärker.
Das Ende ist bekannt – aber noch nicht gegessen. Für das was sich heute im Westen noch „Linke“ nennt, ist - aus meiner subjektiven Sicht - dieser Zusammenbruch nach wie vor merkbar: als wesentliche Komponente einer Dauerkrise, die zur offensichtlichen Obsoleszenz von Gruppierungen wie PD, SPD oder SPÖ geführt hat.

Dom, 04/23/2023 - 11:05 Collegamento permanente
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Salto User
Manfred Gasser Dom, 04/23/2023 - 11:43

In risposta a di Salzer Claudio

Die erste und wichtigste Frage: gibt es in Europa noch eine Linke, die diesem Namen gerecht wird, und an einer Regierung beteiligt ist? Meiner persönlichen Meinung nach war Willi Brandt, und dessen SPD, die letzte "linke" Regierung in Mitteleuropa, alles danach war nur mehr ein Benutzen des Synonym's "Sozialismus" als Feigenblatt. Der Kommunismus spielte in Westeuropa nur soweit eine Rolle, dass durch den Druck von z.B. 40% PCI-Wählern in Italien, Zugeständnisse gemacht werden mussten.

Dom, 04/23/2023 - 11:43 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Dom, 04/23/2023 - 10:25

Se posso osservare, non era così impossibile lavorare nelle fabbriche a quei tempi, come nel caso degli operai di Sarentino. Approfitto anche per fare notare la presenza frequente nelle scuole e negli asili in lingua italiana di bambini di madrelingua tedesca, presumo per apprendere la lingua. Oltreché la decisa maggioranza in proporzione nelle scuole di lingua ladina, da me conosciute, forse per gli stessi motivi.

Dom, 04/23/2023 - 10:25 Collegamento permanente
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Josef Perkmann Dom, 04/23/2023 - 15:21

Nach einigen besorgten Anrufen möchte ich den deutschsprachigen Lesern dieses Sonntagsgesprächs mitteilen, dass dieses Gespräch in italienischer Sprache geführt und von Fabio Gobbato redaktionell hervorragend betreut wurde. Deshalb ist der italienische Text (also das Original) auch gut lesbar und der Inhalt wird offensichtlich so verstanden wie er gemeint ist.
Die deutsche Übersetzung, die hier abrufbar ist, stammt hingegen aus der digitalen Zauberkiste. Entsprechend klingen manche Passagen wie Auszüge aus einer Faschingszeitung, es werden Bezeichnungen von Begriffen und Funktionen abgefälscht und verbraten und Zusammenhänge verdreht. Es ist deshalb ratsam, im Zweifelsfall auf das italienische Original zurückzugreifen. Tut mir leid, aber die künstliche Intelligenz hat bei den Übersetzungen halt noch massive Verbesserungschancen.
Zum Inhalt wurden in den vorherigen Kommentaren mehrere bemerkenswerte Aspekte angesprochen, die es wert sind, besprochen zu werden, aber nicht zwischen Tür und Angel oder hinter verschlossenen Türen. Vielleicht lässt sich dafür ein geeigneter Rahmen finden. Ich weis es nicht.
Aber man sollte offen darüber reden können, was von den alten Sozialismen übrig geblieben ist, was bis zu uns einfachen Bergbewohnern durchgesickert ist, warum sich der PCI selbst abgeschafft hat, was uns Gorbatschow sagen wollte und ob es heute noch "linke" Parteien, Listen und Bewegungen gibt, die es uns erlauben, zuversichtlich nach vorne und nicht nur
enttäuscht nach hinten zu schauen.

Dom, 04/23/2023 - 15:21 Collegamento permanente
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Fabio Gobbato Lun, 04/24/2023 - 07:57

Essendo stata detta da una persona che non avrebbe avuto alcun motivo di dire una cosa per un'altra ed essendo questa persona tra i pochi a frequentare la zona industriale, mi sembrava superfluo doverla verificare. E' oltre tutto più che verosimile che le cose stessero così. Se gli storici (o lo storico?) a cui lei ha chiesto hanno evidenze del contrario (e il contrario corrisponderebbe alla presenza, tra il '68 e il '72, di parecchie decine di operai di lingua tedesca nelle fabbriche della Zona industriale, non di 5 o 6), cambio volentieri l'attacco del pezzo. O, anzi, la cosa migliore sarebbe che inviassero proprio un testo breve e facciamo un nuovo articolo linkato.

Lun, 04/24/2023 - 07:57 Collegamento permanente
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Peter Gasser Lun, 04/24/2023 - 08:25

Lesend fragt man sich, woher so viel Gehässigkeit, Revanchismus, Unfreundlichkeit in manchen Kommentaren kommt.
Es ist doch „ad oggi e qui“ dies Verhalten, dies Fehlen von Wohlwollen, Freundlichkeit, Respekt, das die Menschen nicht zusammen bringt.

Lun, 04/24/2023 - 08:25 Collegamento permanente
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Liliana Turri Lun, 04/24/2023 - 12:27

Lettura interessante e scorrevole. Io in quegli anni non c'ero in provincia e pur essendo trentina sul confine linguistico, dell'Alto Adige poco mi interessava. Avevo una vita da risolvere. Anch'io figlia di contadini di un paesino isolato, devo la mia formazione alla condizione di orfana, senza la quale il collegio in città, fin dalle elementari, mi sarebbe stato precluso. Trasferita in provincia di Bolzano mi è stato inevitabile acquisire la storia passata e le questioni presenti. Langer è stato da subito un importante riferimento per me. La storia di Josef aggiunge conoscenze importanti da un vissuto personale che mi mancavano.

Lun, 04/24/2023 - 12:27 Collegamento permanente
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Liliana Turri Lun, 04/24/2023 - 15:26

In risposta a di Liliana Turri

Aggiungo, a proposito di quanto espresso nei commenti all'intervista del signor Josef Perkmann, che i sudtirolesi (di lingua tedesca) ritengo non chiedessero di essere assunti nelle fabbriche italiane per non contribuire all'industrializzazione italiana iniziata sotto il fascismo, non perché venissero rifiutati dalle stesse.

Lun, 04/24/2023 - 15:26 Collegamento permanente
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Josef Perkmann Lun, 04/24/2023 - 16:21

Rispondo al Signor Marcon non per il gusto della polemica, ma per dire che, a mio avviso, abbiamo superato abbastanza bene le vecchie vicende intorno alla "zona industriale" di Bolzano per il bene di tutti quanti. A parte che "gli storici" (documenti alla mano e testimonianze verbali) conoscono il passato sempre meglio di quelli che hanno vissuto quel passato, che hanno una visione "personale" molte volte anche sbagliata, distorta, non confermata dalle cifre. La questione della "zona industriale" la conosco non solo per esperienze vissute, ma anche per le cifre confrontate, e oggi sono contento, che per quelle cifre, quei comportamenti discriminatori che hanno durato molto oltre il 1945, siamo riusciti - con il buonsenso di tutte le parti - ad evitare una guerra tra poveri.
Volendo fare le pulci sul fenomeno delle assunzioni discriminatorie nella zona industriale di Bolzano, che ha durato per più di 30 anni, tengo a precisare, che le assunzioni riservate ad operai ed impiegati italiani selezionati per lingua e nazionalità, possibilmente non comunisti, hanno iniziato a sgretolarsi proprio nei primi anni settanta - e quel periodo lo ricordo da vicino. Sono stati assunti i primi operai "tedeschi" - che davano all'occhio come le mosche bianche - sono seguiti quelli di Sarentino, venuti in pulman...visibilmente tirolesi valligiani... non erano 5 o 6, ma erano un bel gruppetto, con il quale pian pianino con Aldo Foldi, comunista, più tardi anche con Josef Stricker, sindacalista della CISL e sacerdote della diocesi, siamo riusciti a fare qualche assemblea sindacale, dalla quale è uscito un delegato.
Signor Marcon, sul fenomeno zona industriale di Bolzano, Montecatini di Sinigo e Pubblico Impiego in Alto Adige non bisogna fare le pulci sul momento in cui stava per essere superato. Bisogna valutare con onestá intellettuale il fenomeno nel suo complesso (anche con cifre alla mano), le circostanze della nascita, i contenuti discriminatori, il potenziale di conflitto e i modi del suo superamento. Gli storici sono in grado di dare un grande contributo, ma fanno fatica a farlo in modo tranquillo. La patata è ancora troppo calda.

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Liliana Turri Mer, 04/26/2023 - 15:01

Signor Perkmann,
Ritengo opportuno precisare - stimolata dal suo ultimo commento che invita alla calma - che non si possono dimenticare situazioni sempre presenti nelle quali il cittadino sudtirolese italiano si trova non poco svantaggiato rispetto a quello tedesco. E non per sua mancanza di volontà o negligenza. Io credo che sarebbe ora di intervenire perché si possano avere pari opportunità e dignità.
Ad esempio istituendo sezioni con insegnamento bilingue nelle scuole, senza nulla togliere a quelle monolingue esistenti. La separazione dei gruppi e il dialetto sudtirolese sono ostacoli per l'acquisizione di un bilinguismo alla pari del cittadino altoatesino/sudtirolese italiano. E lei, da ex sindacalista, ne è senza dubbio consapevole.
È opportuno magari farlo finché la patata è ancora calda. Una volta raffreddata potrebbero volerci altri 70 finché si scaldi. Lei che ne pensa?

Mer, 04/26/2023 - 15:01 Collegamento permanente
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Sepp.Bacher Mer, 04/26/2023 - 15:24

In risposta a di Liliana Turri

Ein Gegenbeispiel: ein mir bekannter Italiener, der gerade dabei war, für die Zweisprachigkeit zu lernen, bat mich, ob ich mit ihm Sprachtandem mache. Ich müsste aber Standartdeutsch sprechen. Das war für mich selbstverständlich und wir übten abwechselnd deutsch oder italienisch zu sprechen.
Als er die Zweisprachigkeitsprüfung geschafft hatte, war sein Interresse geschwunden: er hatte keine Interesse mehr mit mir deutsch zu sprechen. Ihm interessierte nur das Patentino und weil er das ein für allemale erworben hatten, wünschte er, mit mir wieder in italienisch zu sprechen.
Eine Kuriosität noch dazu: diese Lehrperson hat eine deutsche Frau und entsprechend auch deren deutsche Verwandschaft. Er hatte erreicht, dass er zu seinem Lohn noch die Zweisprachigkeitszulage erhielt!? Basta.

Mer, 04/26/2023 - 15:24 Collegamento permanente
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Manfred Gasser Mer, 04/26/2023 - 19:28

In risposta a di Liliana Turri

Wenn eine tschechische Service - Fachkraft nach 2-3 Jahren italienisch und deutsch ziemlich gut, und Dialekt ausreichend, spricht, frage ich mich, was bei unseren italienischen Mitbürgern das Problem ist. Natürlich kann eine zweisprachige Schule helfen, aber Schule kann nicht Schülern eine Sprache lehren, die diese nicht lernen wollen, und besonders außerschulisch nicht benutzen müssen.

Mer, 04/26/2023 - 19:28 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Gio, 04/27/2023 - 10:48

In risposta a di Manfred Gasser

Sig. Gasser
lo diceva già Leonardo da Vinci, e, oggi, i principali neurolinguisti. Le lingue si imparano se si amano. Far amare la lingua è il principio di metodologie didattiche precise che però qui da noi sono state ferocemente osteggiate, e non solo da parte "tedesca", sia chiaro. Il livello di tensione e oppressione che si vive fin da piccoli impedisce di imparare una lingua che è già di per sé molto difficile strutturalmente. Tenga solo conto che io, pur avendo patentini ex "A" di bi e trilinguismo, avendo insegnato italiano tedesco e ladino anche all'università, essendo stata membro di commissione nei patentini di bilinguismo, a 56 anni sono stata tempo fa nuovamente sottoposta a ulteriori esami linguistici. Queste situazioni non sono accettabili in nessun contesto civile e democratico.
E di questo occorre essere consapevoli.

Gio, 04/27/2023 - 10:48 Collegamento permanente
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Manfred Gasser Gio, 04/27/2023 - 19:17

In risposta a di Simonetta Lucchi

Non ho nessun patentino, non ho mai studiato, e lo stesso parlo, e scrivo abbastanza bene la lingua di Dante. Non sono ancora contento, vorrei avere il "Wortschatz", e saper scrivere come, per esempio, Gabriele Di Luca in italiano, o come Thomas Benedikter in tedesco. Del resto Le do pienamente ragione, se la societa e la scuola riesce a far amare agli alunni la seconda, terza o quarta lingua, tutto il resto si risolve strada facendo.

Gio, 04/27/2023 - 19:17 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Mar, 05/02/2023 - 10:33

In risposta a di Manfred Gasser

Sig. Gasser
Non ho parlato di patentini per vantarmi, ma per dire che sono stata costretta a farlo per poter lavorare e avendone necessità. E ancora oggi, alla mia veneranda età, vengo sottoposta a controlli linguistici. Non ho dubbi, e in questo mi complimento con Lei, che si possano conoscere bene le lingue anche in altri modi. A me piacciono comunque.

Mar, 05/02/2023 - 10:33 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Mar, 05/02/2023 - 11:01

In risposta a di Manfred Gasser

Le rispondo in base alla mia esperienza, Sig. Gasser, non pretendo sia la verità.
1. Le lingue si imparano meglio in un contesto pratico. Nelle scuole tendiamo a fare molta storia della letteratura, e facciamo parlare poco i ragazzi. Questo non sempre ma spesso;
2. Chi conosce una lingua slava ha di base molta più facilità a apprendere il tedesco, rispetto a un italofono. Per alcune caratteristiche, anche l'italiano rispetto a un germanofono;

- il dialetto non si impara a scuola e finché viviamo in contesti divisi è inutile pretenderlo.

Se si deve affrontare un esame di lingua, come richiesto agli "italiani" che mediamente hanno un diploma o laurea, la situazione poi è diversa e occorre precisione anche nello scritto

Mar, 05/02/2023 - 11:01 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Gio, 04/27/2023 - 10:26

Solo alcune osservazioni. In un mio articolo precedente mi sono rivolta al prof. Dello Sbarba per dire: attenzione alle parole. Sono abituata a insegnare in classi di liceo con ragazzi di tutte e tre le etnie, in particolare di madrelingua tedesca, provenienti da scuole di tutto il territorio, altri locali e quindi ladini, pochi italiani. So che esistono mille versioni e ogni parola può urtare le sensibilità e impedire il dialogo. A me non piace mai criticare e offendere nessuno e peso le virgole. Per parlare di storia e scuola non servono le esperienze personali. Dovrebbero farlo persone super partes e molto esperte. Io ho vissuto quegli anni e ricordo gli operai. Mi rendo conto che esistono alcune ancora da riempire. Ma ho studiato la storia sudtirolese in Germania, più che qui. Purtroppo, però, i presupposti sono sempre quelli di voler capire. Se manca la volontà, bisogna prendere atto del fallimento di un progetto politico e sociale, che era quello di una rispettosa convivenza.
Da qui, possibilmente ripartire, se si vuole.

Gio, 04/27/2023 - 10:26 Collegamento permanente
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Simonetta Lucchi Mar, 05/02/2023 - 10:50

In risposta a di Dennis Loos

Sig. Loos, e rispondo anche alla sig.ra Turra

Mi scusi, leggo solo ora. Se mi può spiegare meglio la domanda, scrivo molti articoli non solo su Huffington Post, poi potrò rispondere;

- il "mio" libro, giustamente fra virgolette perché mi riferisco a una pubblicazione senza fini di lucro e in uso nelle scuole a fini divulgativi, non è appunto in vendita, ma si possono trovare informazioni in rete. Ne potrò scrivere se interessa anche qui su Salto prossimamente;

- alla sig.ra Turra, che ringrazio, devo dire che mi riferisco a studi di ormai trent'anni fa e non riguardano un corso o un testo specifico, piuttosto più letture. Ancora adesso comunque su canali come Arte' si possono vedere interessanti documentari sul Sudtirolo o in generale trovo interesse per letterati o artisti locali qui non molto noti .

Mar, 05/02/2023 - 10:50 Collegamento permanente