Presepio ariano
“E lei perché si trova a Merano?”
“Ho bisogno di cure”, rispose l’anziano prete, mostrando il suo corpo vecchio e malandato. “Ho bisogno di cure”, ripetè battendosi l’indice sulla tempia, come ad indicare una qualche deficienza mentale. Poi emise un risolino a sollievo del visitatore ammutolito dall’imbarazzo. La sua specialità era proferire balordaggini con un tono talmente serio da trarre in inganno i suoi interlocutori.
“E’ vecchio ma non rimbambito”, si inserì il giovane teologo appassionato di demoni e fiamme eterne.
“Sono in purgatorio, ecco”, tagliò corto don Ferdinand compiacendosi nell’invadere il campo del demonologo. Il Gauleiter l’avrebbe voluto mandare dritto all’inferno ma il procuratore di stato Seiler, un bavarese dallo spirito più fine, aveva compreso di avere di fronte un uomo che il plotone d’esecuzione avrebbe avviato, aprendo il fuoco, a ben altra destinazione. Per evitargli la beatitudine riservata ai miti e a coloro che hanno fame e sete di giustizia, aveva preferito cacciarlo tra le fiamme purificatrici del purgatorio meranese, evitando così di anteporre al giudizio finale quello del tribunale speciale di Bolzano. La pena di morte era stata commutata in cinque anni di detenzione ed infine, data l’età del reo, il suo stato di salute e soprattutto – ma Seiler si guardò bene del farne parola col Gauleiter – la futilità del reato, in un soggiorno obbligato tra le mura linde ed accoglienti del sanatorio Filipinum.
“E’ un piccolo paradiso, questo purgatorio”, ghignava don Ferdinand avvicinandosi alla finestra socchiusa della stanza e accennando con un rapido movimento degli occhi alle piante sempreverdi del parco a meridione della clinica.
“E lei?”, chiese il visitatore al demonologo.
“Cerca il diavolo”, lo anticipò il vecchio prete. “Io gli darei una mano, lo porterei di persona al suo cospetto, ma non mi è concesso, ancora, di lasciare il purgatorio per l’inferno”, aggiunse ridendo e voltandosi questa volta verso nord, roteando una mano ad indicare di là, di là delle Alpi. “Non ci posso andare, io, a Berlino”.
Il suo era un ridere tragico. “Colui che abita nel cielo, ride di loro”, aveva scritto “con ansia bruciante” il papa malato, citando il secondo salmo, scagliandosi contro il “cosiddetto mito del sangue e della razza” e bollando la nuova superstizione come parola di “profeti di chimere”. Che il giovane studioso si desse tanto da fare per rincorrere il demonio quando esso si era manifestato in tutta la sua nefasta vacuità come mai nella storia, lo metteva di buon umore, il prete. Amaramente di buon umore. Sapeva bene d’altronde che anche il teologo aveva fatto la sua scelta di campo. Tra le mura discrete del sanatorio ascoltava i messaggi di radio Londra, li interpretava in base ai codici fornitigli dai partigiani della lega Andreas Hofer e li comunicava ai nuclei di resistenti. Aveva deciso di prendere il diavolo per le corna. Che proprio lì, in quel covo di cospiratori, avessero rinchiuso don Ferdinand a scontare le sue futili colpe, anche questo fatto aveva strappato al vecchio prete più di un sorriso.
Don Ferdinand osservava dalla finestra le forme degli alberi esotici, studiava gli snodi dei rami e la qualità dei tronchi. Era nato, settantacinque anni prima, fra i trucioli odorosi del laboratorio del padre, artigiano costruttore di altari. Falegname come Giuseppe. Ne aveva ereditato la propensione per il sacro e la passione per l’arte popolare che l’avevano condotto, dopo una breve esperienza in cura d’anime, a dedicarsi alla costruzione di presepi e a trasmettere, ai giovani studenti di Bressanone, i segreti dell’insolito mestiere.
La sua fama d’artista era da tempo consolidata quando, forse nei primi mesi dell’anno di guerra 1944, non aveva saputo resistere a dare ai “profeti di chimere” il suo personale contributo al “mito del sangue e della razza”.
Un bel gruppo di persone si era recato da lui per vedere i famosi presepi. Senza farsi notare, il prete guardò in alto e si assicurò che “Colui che abita nel cielo” avesse la risata pronta. Allora prese una piccola greppia delle sue e disse, palesando indifferenza: “Ora vi mostro com’è un presepio ariano”. Così disse: un presepio ariano. E prima che qualcuno dei presenti potesse interloquire ficcò la mano nella mangiatoia e tirò fuori il bambino. “E’ un figlio di Davide, deve sparire”. Discendente di Davide è Giuseppe, il falegname, e la Madre di Dio è ebrea: via nel cassetto. “Die Hirten, lauter Juden, also weg”, disse raccogliendo ad uno ad uno i pastori e scagliandoli in un angolo della stanza.
“A questo punto – aggiunse guardando negli occhi i visitatori esterrefatti – gli angeli dicono: Se non c’è più Gesù bambino, andiamo via anche noi”. Spariti pure gli angeli.
“Ecco, signore e signori: non restano che l’asino e il bue”. Si fosse fermato lì, magari qualcuno avrebbe persino applaudito. Ma don Ferdinand volle evitare ogni possibile equivoco. “Restano solo l’asino e il bue: Hii... e Muu...”, ragliò e muggì sonoramente. Uno dei presenti fece il resto: “Sì, sì – chiosò quello –, non restano che Hiiitler e Muuussolini”.
Spettatore indignato della scena blasfema, un Sonderführer prussiano lo denunciò seduta stante. Il Gauleiter propose la pena capitale per il delitto di lesa maestà. Il procuratore Seiler – anche lui, come il demonologo, ascoltava la BBC – dovendo sostenere l’accusa di fronte al tribunale speciale, non ci pensò neppure a mandare don Ferdinand anzitempo a godersi un’eterna risata. Riuscì a fargli comminare cinque anni di purgatorio. Forse, rivolgendosi ai giudici del tribunale ariano, avrà picchiettato l’indice sulla tempia, ad indicare negli assurdi pensieri del vecchio prete qualche forma di deficienza mentale.
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Nota.
Il fatto è realmente avvenuto. Don Ferdinand Plattner (1869-1950) coltivò per tutta la vita la passione della costruzione dei presepi.
Durante la guerra il demonologo Egon von Petersdorff (1892–1963), dall’istituto Filipinum di Merano ascoltava le trasmissioni clandestine alleate e le trasmetteva ai capi dell’organizzazione resistenziale Andreas Hofer.
Questo racconto è stato pubblicato sul volume
Paolo Bill Valente, La città sul confine, Milano 2006