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L’ultimo bambino di Auschwitz

L'aumento dei casi di negazionismo e la testimonianza di Oleg Mandić al Festival della Memoria: “Il campo di sterminio era un’industria, la morte il suo prodotto finale”
Oleg Mandić con la madre Névenka e la nonna Olga
Foto: archivio storico

Oggi, mercoledì 27 gennaio, si celebra la Giornata della Memoria, la commemorazione internazionale istituita nel 2005 per ricordare le vittime dell’Olocausto.

Una ricerca condotta lo scorso ottobre da Eurispes ha evidenziato negli anni la preoccupante ascesa del fenomeno negazionista che sminuisce, quando non rifiuta in toto, la storia del più grande progetto di annientamento di massa mai messo in atto nella storia dell’umanità. Anche l’Italia non ne risulta immune: si stima che in quindici anni la percentuale dei negazionisti della Shoah sia passata dal 2,7% al 15,6%, mentre il 16% sostiene che la soluzione finale perpetrata nei confronti degli ebrei "non ha fatto così tanti morti". Allo stesso tempo, il 37,2% liquida i casi di antisemitismo come "scherzi o bravate" mentre il 19,8% afferma che "Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio".

 

"Negazionisti? In questi lunghi anni sono pochi quelli che hanno avuto il coraggio di rivolgersi a me: io sono la testimonianza vivente della stupidità delle loro idee. Presto non ci sarò più, perciò sarà vostro il compito di custodire e portare avanti la Memoria. Il negazionismo è un problema ma l’assuefazione è ancora peggiore". È questo il lucido appello che a 87 anni Oleg Mandić, l’ultimo prigioniero di Auschwitz ad avere abbandonato da vivo il campo di sterminio, rivolge alle migliaia di studenti e studentesse di tutta Italia che hanno partecipato ieri - martedì 26 gennaio - al doppio appuntamento dell’incontro testimonianza all’interno di "Living Memory", il Festival della Memoria promosso dall’associazione Terra del Fuoco Trentino in collaborazione con la Fondazione Museo Storico.

Oleg Mandić viene deportato nel luglio del ‘44 ad Auschwitz assieme alla madre Névenka e alla nonna Olga. Dopo un viaggio estenuante, durato tre notti e due giorni, stipato all’interno di un vagone di un treno merci, arriva alle porte del lager più grande d’Europa, dove gli viene subito tatuato il numero 189488: poche ore sono bastate per cancellarne il nome e trasformarlo in un numero. Ad Auschwitz rimane per 8 mesi, fino al momento della liberazione del campo da parte delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa.

 

Quel triangolo rosso

 

Quando arriva ad Auschwitz, Oleg Mandić è ancora un bambino. Dopo essere stato smistato per errore assieme alla madre e alla nonna nella sezione femminile gli viene assegnato un triangolo di stoffa rossa con la sigla "IT", che nel gergo del campo assumeva il significato di "prigioniero politico" e, in questo caso, italiano.

Mandić infatti non era ebreo. Nasce undici anni prima a Fiume, allora sotto dominio italiano e sempre da Fiume, in seguito a una retata delle SS, viene deportato ad Auschwitz. Quello che Oleg, sua madre e sua nonna hanno pagato è stata la loro appartenenza a una famiglia partigiana, che vedeva il padre e il nonno impegnati a combattere a fianco della Resistenza jugoslava durante l’occupazione nazista.
"Comprendere il contesto storico e politico che ha portato all’arresto della famiglia di Oleg è fondamentale" sottolinea Tommaso Baldo della Fondazione Museo Storico del Trentino che ha accompagnato l’appuntamento serale.

Fiume e le regioni dell’Alto Adriatico sono state parte dell’Impero Asburgico fino alla fine della Grande Guerra. Il dominio italiano che sopravvenne, e che ben presto si tramutò in regime fascista, intraprese una pesantissima campagna di italianizzazione forzata in quei territori che, come ogni regione di frontiera, erano caratterizzati da una forte mescolanza di lingue, etnie e culture diverse. "Più della metà della popolazione si è ritrovata sottoposta a una serie di fortissime discriminazioni politiche e, nel caso della popolazione croata e slovena, anche culturali - continua lo storico -. Non puoi parlare nella tua lingua, né insegnarla o impararla, vieni licenziato dai posti di lavoro e vivi questa situazione per vent’anni. Nel ‘41 la Germania nazista e il Regno d’Italia invadono in pochi giorni il Regno di Jugoslavia. Cominciano così le violenze sia delle truppe occupanti sia dei collaborazionisti locali: stragi di massa che portano l’adesione della popolazione al movimento di Resistenza, che poi sarà guidato dal partito Comunista: un esercito enorme che inizia una guerriglia molto efficiente e che fa diventare la Jugoslavia per il regio esercito italiano quello che il Vietnam ha rappresentato per gli americani".

L'8 settembre del ‘43 Mussolini viene deposto, Badoglio firma l’armistizio con gli alleati e scappa assieme al Re, abbandonando il paese nel caos. Qui la popolazione di Fiume e dell’Istria, già organizzata e preparata sulla scia della vicina Jugoslavia, insorge, vivendo una Liberazione due anni in anticipo dal resto d’Italia. "I nazisti però arrivano anche qui - spiega lo storico - e dopo un mese conquistano l’intero territorio ammazzando più di 2500 persone. È questo il momento in cui i genitori e i nonni di Oleg si uniscono ai reparti combattenti ed è questo il perché di quel triangolo rosso che Oleg indossava ad Auschwitz".

 

"Una macchina di sterminio che funzionava da sola"

 

"In otto mesi di Auschwitz non ho mai visto un ufficiale tedesco, tutto era gestito dai kapò, anch’essi detenuti - racconta Mandić durante la sua lunga testimonianza -. Tutto è stato pensato nei minimi dettagli per rendere Auschwitz un’industria efficiente il cui prodotto finale era la morte. Durante la Conferenza di Wannsee, ci vollero 45 minuti per approvare l’idea di soluzione finale nei confronti degli ebrei. Le rimanenti sedici ore furono impiegate per capire come eliminare e occultare tutti i cadaveri degli undici milioni di ebrei che popolavano l’Europa. A tal proposito - continua il sopravvissuto - oltre a mettere a punto il sistema delle camere a gas e dei forni crematori è stato stilato da parte del Ministro della Salute un programma che regolava in ogni dettaglio la vita di un detenuto del campo, destinato al logoramento fino al sopraggiungimento della morte che, per ragioni logistiche, non poteva avvenire dopo i sette mesi al fine di non alterare il funzionamento dell’efficiente macchina di sterminio che erano stati in grado di creare".

 

"Non c’è traccia di follia in tutto questo - ricordano a più riprese Oleg e il direttore del Museo Storico Trentino Giuseppe Ferrandi durante l'evento di ieri -. I pazzi erano pochi, molti invece erano gli ubbidienti che con estrema lucidità eseguivano perfettamente il loro lavoro".

Lo stesso Josef Mengele, il responsabile (mai condannato) dei crudeli esperimenti medici e genetici condotti ad Auschwitz, viene ricordato da Mandić (che per diversi mesi ha vissuto all’interno del suo reparto, senza però essere mai stato utilizzato come cavia) come una persona estremamente lucida, calma e sempre impeccabile nell’aspetto, nei modi e nel vestire: “L’unico, in tutti quei mesi, che non si è mai rivolto a me strillando e urlandomi contro in malo modo. Solo anni dopo ho scoperto degli atroci esperimenti che portava avanti. La malvagità di Mengele non era fine a se stessa, aveva una finalità specifica ed è questa la cosa terribile. È facile parlare dei nazisti come dei pazzi, ci rassicura. Ma la dura verità è che si trattava di persone assolutamente normali all’interno di un disegno criminale".