Tennis: una malattia che se ti prende non ti molla più.
Basta una fuga su You Tube, al giorno d'oggi, per scavare nell'inconscio di emozioni sopite pronte a riemergere come un colpo d'ascia.
E allora ti ritrovi davanti le immmagini che hai immagazzinato nella tua povera memoria disastrata, da mille traumi diversi, con una nitidezza
commendevole.
Ti capita magari di rivivere, con una intensità addirittura superiore ma senz'altro diversa, quella stilettata di McJesus, il paradisiaco McEnroe, che avevi
impresso per sempre nella mente e riposto tra le cose più care. Oppure scorri le battute dei "circoletti rossi" appena pubblicate del Tommasi, per ridere
inconsapevolmente dentro te, mentre scorrono pezzi della tua stessa esistenza, ("chiamato a giocare di fino, dimostrava le sue umili origini", "quando
arrivano i nani, le ombre si allungano al tramonto"), in un gioco di richiami che costellano le ore donate a un campo da tennis.
Dovremmo dunque gioire quando in un Paese disgraziato come il nostro, escono due libri in un lasso di un battito di ciglia, tra i migliori che si possano
leggere sopra il più internazionale degli sport. Il primo è un capolavoro di letteratura, non solo sportiva.
John McPhee vede finalmente tradotto anche in Italia il suo Levels of the Game, insieme a Twynam of Wimbledon, due gemme che non possono
incantare anche il più refrattario dei lettori.
La capacità di entrare nella mente di un giocatore, attraverso i sentimenti e le varianti psicologiche di una partita, che è lo specchio deformato del
quotidiano, mentre la faccia cruda del reale può essere individuato anche nelle traiettorie infide disegnate negli stati d'animo più variegati: dalla rabbia
alla paura, dall'esaltazione agonistica al calcolo più consapevole, dall'arrendevolezza alla reazione più inusitata: il tutto seguendo una pallina da tennis,
tra gesti bianchi e flanelle immacolate.
Basterebbe socchiudere gli occhi, senza immedesimarsi nei giocatori, per vivere comunque un dramma da teatro, ma pur sempre una tragedia
umana. Dissezionare un match, un compito improbo anche per il migliore degli scrittori: McPhee c'è riuscito mirabilmente in un libro.
Gianni Clerici, ai tempi dorati del "Giorno", ci riusciva in un pezzo di quotidiano di due colonne, ed ecco perchè radunare i suoi sessanta anni passati
nei dintorni di Wimbledon (da cronista affitta casa e cuoco per due settimane) vuol dire entrare da una porta non secondaria dalle Dorethy Gates.
Lui, scrittore prestato al tennis, ha coniato un modo di raccontare lo sport che gli viene da lontano, da certe battute degli anni Trenta degli umoristi
statunitensi, con uno stile personale e di antica famiglia comacina, quasi quanto la stirpe immacolata dei Miglio, del quale era amico, prima di ritirarsi
armi e bagagli in Svizzera.
Già, tra queste pagine, così diverse eppure così amabili, come un tè delle cinque nel pomeriggio della campagna inglese, si può respirare l'aria che da
questa settimana apre la stagione del grande tennis a Parigi. Un'altra storia quella del Roland Garros, che rimane il miglior torneo come
organizzazione, nel fascino aureo degli Slam.