Tennis: una malattia che se ti prende non ti molla più.

Se c'è uno sport che ti entra nelle ossa questo è il tennis, è come il jazz, come un amore che ritorna, più forte e intenso di prima. Una sorta di stagione che si ripresenta con la forza del ricordo, e la nettezza della memoria, non condivisa come dicono gli sciocchi, ma individualmente connotata da immagini, persone, situazioni indelebili che riemergono poderosamente magari in un unico frame.
Forse qui sta racchiusa la bellezza profonda del vivere, in istanti che si proiettano nel futuro, pronti a essere rivissuti con diversa armonia. Il re dei giochi si svela nella primavera tarda quando in un triangolo magico si asprono le porte del Roland Garros...
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Haus lebt | Simon Brugner

Basta una fuga su You Tube, al giorno d'oggi,  per scavare nell'inconscio di emozioni sopite pronte a riemergere come un colpo d'ascia.

E allora ti ritrovi davanti le immmagini che hai immagazzinato nella tua povera memoria disastrata, da mille traumi diversi, con una nitidezza

commendevole.

Ti capita magari di rivivere, con una intensità addirittura superiore ma senz'altro diversa, quella stilettata di McJesus, il paradisiaco McEnroe, che avevi

impresso per sempre nella mente e riposto tra le cose più care. Oppure scorri le battute dei "circoletti rossi" appena pubblicate del Tommasi, per ridere

inconsapevolmente dentro te, mentre scorrono pezzi della tua stessa esistenza, ("chiamato a giocare di fino, dimostrava le sue umili origini", "quando

arrivano i nani, le ombre si allungano al tramonto"), in un gioco di richiami che costellano le ore donate a un campo da tennis.

Dovremmo dunque gioire quando in un Paese disgraziato come il nostro, escono due libri in un lasso di un battito di ciglia, tra i migliori che si possano

leggere sopra il più internazionale degli sport. Il primo è un capolavoro di letteratura, non solo sportiva.

John McPhee vede finalmente tradotto anche in Italia il suo Levels of the Game, insieme a Twynam of Wimbledon, due gemme che  non possono

incantare anche il più refrattario dei lettori.

La capacità di entrare nella mente di un giocatore, attraverso i sentimenti e le varianti psicologiche di una partita, che è lo specchio deformato del

quotidiano, mentre la faccia cruda del reale può essere individuato anche nelle traiettorie infide disegnate negli stati d'animo più variegati: dalla rabbia

alla paura, dall'esaltazione agonistica al calcolo più consapevole, dall'arrendevolezza alla reazione più inusitata: il tutto seguendo una pallina da tennis,

tra gesti bianchi e flanelle immacolate.

Basterebbe socchiudere gli occhi, senza immedesimarsi nei giocatori, per vivere comunque un dramma da teatro, ma pur sempre una tragedia

umana. Dissezionare un match, un compito improbo anche per il migliore degli scrittori: McPhee c'è riuscito mirabilmente in un libro.

Gianni Clerici, ai tempi dorati del "Giorno", ci riusciva in un pezzo di quotidiano di due colonne, ed ecco perchè radunare i suoi sessanta anni passati

nei dintorni di Wimbledon (da cronista affitta casa e cuoco per due settimane) vuol dire entrare da una porta non secondaria dalle Dorethy Gates.

Lui, scrittore prestato al tennis, ha coniato un modo di raccontare lo sport che gli viene da lontano, da certe battute degli anni Trenta degli umoristi

statunitensi, con uno stile personale e di antica famiglia comacina, quasi quanto la stirpe immacolata dei Miglio, del quale era amico, prima di ritirarsi

armi e bagagli in Svizzera.

Già, tra queste pagine, così diverse eppure così amabili, come un tè delle cinque nel pomeriggio della campagna inglese, si può respirare l'aria che da

questa settimana apre la stagione del grande tennis a Parigi. Un'altra storia quella del Roland Garros, che rimane il miglior torneo come

organizzazione, nel fascino aureo degli Slam.