Dentro il gorgo dei Cpr
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Negli ultimi anni Luca Rondi, insieme a Lorenzo Figoni, ha raccontato su Altreconomia le opacità e le storture dei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani. Per i risultati e gli elementi emersi dal loro lavoro di ricerca, però, lo spazio dell’inchiesta non era più sufficiente. “Da qui – spiega il giornalista – l’esigenza di pubblicare un saggio che aiutasse lettori e lettrici a capire, partendo dall’analisi giornalistica di quello che succede, che non esiste la possibilità di gestire in modalità virtuosa i Centri di permanenza per il rimpatrio che da venticinque anni di fatto ledono i diritti delle persone rinchiuse, a prescindere da chi sia l’ente gestore o da quale colore politico sia al governo”.
SALTO: Partiamo dal titolo del libro: perché “Gorgo Cpr”?
Luca Rondi: Abbiamo intitolato il libro Gorgo Cpr e non per esempio “buchi neri” – altra immagine giustamente spesso accostata a questi centri – rifacendoci al celebre racconto di Beppe Fenoglio (“Il gorgo”, ndr), perché oggi conosciamo molto bene le condizioni di vita delle persone trattenute, le irregolarità che si verificano in tema di appalti e siamo a conoscenza dei mancati controlli da parte delle prefetture. La domanda che ci ha mosso pertanto non è stata “cosa succede all’interno dei Cpr?”, quanto piuttosto “come è possibile che nel 2024 questi luoghi siano ancora aperti?”.
Nel saggio ripercorrete il tragico destino di Moussa Balde e Ousmane Sylla, due degli oltre trenta morti all’interno di questi non-luoghi. In che modo le loro vicende sono paradigmatiche per spiegare il “sistema Cpr”?
Moussa Balde e Ousmane Sylla sono passati quasi improvvisamente da vittime di un reato – il primo di un pestaggio razzista subìto davanti a un supermercato a Ventimiglia, il secondo delle violenze nel centro in cui era accolto – a stranieri irregolari da rinchiudere nei centri per il rimpatrio. Questo passaggio mostra come una persona da titolare di un diritto di cura e protezione in quanto vittima possa venire rapidamente ingoiata in un circuito che la invisibilizza e si dimentica completamente del suo vissuto e delle sue esigenze. Il loro suicidio all’interno dei Cpr di Torino e Roma, inoltre, ci aiuta in parte a smentire la retorica tossica secondo cui in queste strutture siano rinchiusi pericolosi criminali. A livello mediatico questa narrazione – che ovviamente non giustificherebbe i trattamenti disumani – per anni ha tenuto gli occhi dei cittadini e delle cittadine lontano da quei luoghi e in qualche modo ne ha legittimato la brutalità. Moussa e Ousmane non erano soggetti pericolosi, ma persone che dovevano essere curate e seguite. Invece sono state isolate dal mondo e hanno perso la vita all’interno di celle spoglie.
Ad aprire il libro è la prefazione scritta proprio dai familiari di Moussa Balde e Ousmane Sylla. Cosa rappresenta questa scelta?
La volontà di far scrivere la prefazione del saggio a Mariama Sylla e Thierno Amadou Balde, sorella e fratello di Ousmane e Moussa, è stata importante perché i familiari delle vittime dei Cpr spesso hanno poca voce. Grazie al loro toccante contributo abbiamo voluto mettere al centro la sofferenza che i Cpr producono anche a migliaia di chilometri di distanza. E ci ha permesso di ricordarci che questi luoghi esistono ancora perché al loro interno non vengono rinchiusi le nostre sorelle e i nostri fratelli. Se così fosse, non li accetteremmo mai.
“Il tema della protesta è un fil rouge che lega questi 25 anni di detenzione amministrativa.”
Un aspetto che mettete in luce è l’utilizzo che le persone trattenute fanno del proprio corpo, spesso l’unico strumento per rivendicare diritti e urlare il proprio dolore.
Apriamo l’excursus storico nel secondo capitolo con una protesta che ebbe luogo all’allora CPTA di Trapani nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1999, dove persero la vita sei ragazzi tunisini. Il tema della protesta è un fil rouge che lega questi 25 anni di detenzione amministrativa. Se il ministro dell’interno Matteo Piantedosi addita le proteste come la ragione per cui i centri sono fatiscenti e la vita al loro interno è insostenibile, per noi invece rappresentano la cartina al tornasole del malessere delle persone, che sono disposte anche a rischiare la vita per far capire quanto sono disumane le condizioni di vita nei Cpr. Non è un caso – ed è veramente una misura brutale – che il Ddl Sicurezza vada ad aumentare anche nei Cpr le pene per le proteste, la partecipazione alle proteste e la resistenza passiva. Così come previsto per le carceri, si criminalizza l’unico atto di ribellione possibile.
In un capitolo illustrate il “registro degli eventi critici” dei Centri per il rimpatrio. Di cosa si tratta?
Nel registro degli eventi critici l’ente gestore annota le forme di proteste, di autolesionismo e i tentativi di suicidio che si verificano all’interno della struttura. I numeri sono impressionanti: a Milano si registra un evento critico ogni due giorni. Ciò è avvenuto quando il centro si trovava sotto amministrazione giudiziaria, quindi nel periodo in cui la gestione avrebbe dovuto essere ottimale. Poi diamo conto di quanto succede al Cpr di Palazzo San Gervasio, riportando fedelmente il contenuto del registro degli eventi critici. Sono pagine che fotografano la tensione e la sofferenza che si vive nei Cpr.
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Può fare una panoramica della struttura che tiene in piedi il sistema-Cpr?
La brutale macchina dei rimpatri non è resa possibile solo dall’operato di un ente gestore o di una prefettura, ma coinvolge diverse professionalità e soggetti. La prima enorme stortura di questo sistema è costituita dalla giurisdizione apparente. Così l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) definisce il ruolo dei giudici di pace chiamati a convalidare il trattenimento delle persone fermate dalla polizia e portate all’interno dei Cpr. È una giurisdizione apparente, perché i dati raccontano, ad esempio, che a Torino il giudice di pace convalida il trattenimento nell’83 percento dei casi, adducendo una motivazione spesso carente e che contiene formule pre-stampate. Il giudice di pace assume così un ruolo ancillare a quello della questura, innescando una dinamica in cui tra l’accusa e colui che deve giudicare non vi è terzietà, ma quasi collaborazione. Nel libro raccontiamo del caso di un avvocato praticante a cui non viene neanche garantita la possibilità di trascrivere quello che sta dicendo a difesa del suo assistito. Il giudice con grande disprezzo – non solo nei suoi confronti ma anche verso la Costituzione su cui ha giurato – decide che quello che succede in aula può non essere trascritto, perché tanto l’udienza può finire in un solo modo.
Particolare attenzione è dedicata anche al ruolo dei medici. Quale quadro emerge?
La professione medica viene tragicamente coinvolta nel funzionamento della “macchina” dei Cpr attraverso le visite di idoneità – che dovrebbero fondamentalmente garantire che chi entra in un Cpr sia idoneo alla vita in struttura – o le visite psichiatriche svolte all’interno dei centri o attraverso i medici che operano nelle strutture. La rete Mai più lager-No Cpr di Milano, con la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni e Asgi, ha lanciato una campagna che si pone due obiettivi: dire a tutti i medici italiani “non firmate le visite di idoneità per l’ingresso nei Cpr” e informarli rispetto a cosa sia un Cpr. Nel libro ipotizziamo il caso di una persona fermata a Firenze, per la quale il primo posto disponibile in un Cpr è a Gradisca d’Isonzo. In quel caso la visita di idoneità verrà fatta al Pronto Soccorso o in un dispositivo ospedaliero del capoluogo Toscano, perché la polizia non trasferirebbe immediatamente la persona in Friuli con il rischio di vedersela dichiarare inidonea. Il medico che svolge la visita a Firenze, però, potrebbe non avere contezza delle condizioni di vita all’interno di un Cpr, dato che nella sua città non ce ne sono. In qualche modo, quindi, tentiamo di richiamare i medici alla loro responsabilità, affinché prendano posizione rispetto a questi luoghi che il dottor Nicola Cocco, medico infettivologo e grande esperto di detenzione amministrativa, ha definito “patogeni”.
In “Gorgo Cpr” mettete in luce il parallelo tra Cpr e istituti manicomiali. Quali sono i punti di contatto tra queste due realtà?
Cpr e manicomi hanno tanti punti in comune: l’abuso di psicofarmaci, l’impossibilità per le persone di rivendicare i propri diritti, il limbo in cui si vive a causa della sospensione indefinita del tempo di vita che può arrivare fino a 18 mesi, le condizioni di vita pessime e, soprattutto, la privazione della libertà personale e la condizione di separazione e isolamento dalla comunità, che l’avvocato Maurizio Veglio definisce “un rito di separazione su base etnica”. Il parallelismo con il manicomio, inoltre, ci sembrava particolarmente azzeccato, poiché all’interno dei Cpr troviamo biografie di persone molto diverse, accomunate dal fatto di essere gli “scomodi” delle nostre città. Raccontiamo, per esempio, la tragica vicenda di Camelia, che si faceva chiamare Giovanni, rinchiusa nel Cpr di Ponte Galeria. Ci è voluta una sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per liberarla. In sede di ricorso l’avvocatura di Stato ha dichiarato che Camelia era stata portata in un Cpr, perché non c’era nessun altro posto dove prendersi cura della sua persona. E allora, se i Cpr diventano i luoghi in cui vengono stipati tutti coloro che non si sa bene dove collocare, ecco che la logica manicomiale ritorna con tutta la sua forza e brutalità.
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Il libro
"Gorgo Cpr. Tra vite perdute, psicofarmaci e appalti milionari", di Lorenzo Figoni e Luca Rondi (ed. Altreconomia)
Un’inchiesta rigorosa sui Centri di permanenza per il rimpatrio italiani: dati, documenti e testimonianze inedite smontano decenni di propaganda politica fatta sulla pelle di migliaia di persone. Ecco perché la “galera degli stranieri” calpesta i diritti e sperpera denaro pubblico. Il libro è acquistabile qui.
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Come già mostrato dalla vostra inchiesta “Rinchiusi e sedati”, il saggio evidenzia l’abuso di psicofarmaci all’interno dei Cpr. Cosa rivela questa prassi?
Il sovrautilizzo di psicofarmaci è lo specchio della presenza all’interno del Cpr di persone con patologie psichiatriche – che quindi non dovrebbe stare in queste strutture –, ma soprattutto della grande sofferenza delle persone recluse. Lo psicofarmaco è sia l’unico strumento per lenire il dolore della reclusione, sia il mezzo più efficace per sedare le proteste ed evitare il clima costante di conflitto che si vive nei Cpr italiani tra l’ente gestore e le forze dell’ordine da una parte e le persone rinchiuse dall’altra. Sottolineo, inoltre, il report del Comitato per la Prevenzione della Tortura (Cpt) del Consiglio di Europa, pubblicato lo scorso 13 dicembre, che ha richiamato, tra le altre cose, la sovraprescrizione degli psicofarmaci all’interno dei Cpr. Va detto, poi, che quanto emerso dalla nostra inchiesta era stato confermato dalle indagini della procura di Potenza e di Milano, che hanno ricostruito – e nel caso di Potenza dettagliato – l’utilizzo quotidiano di psicofarmaci per “tenere buone” le persone: dal rivotril al diazepan, passando per l’akineton.
“Il sovrautilizzo di psicofarmaci è lo specchio della grande sofferenza delle persone recluse.”
Particolarmente inquietante è la condotta degli enti gestori, che in “Gorgo Cpr” richiamate alle loro responsabilità.
Sugli enti gestori facciamo una panoramica delle false promesse all’interno delle gare di appalto: corsi di chitarra, zumba, body percussion, cineforum, corsi di computer. Queste bugie messe nero su bianco fanno riflettere sia sull’attenzione delle prefetture in fase di aggiudicazione di appalti da milioni di euro, sia sulla postura senza scrupoli degli enti gestori. Ricostruire questo aspetto permette di raccontare la distanza siderale tra quello che viene scritto negli accordi e quello che avviene quotidianamente nella realtà dei Cpr.
Chi gestisce oggi i Cpr in Italia?
Ci aspettavamo che la gestione dei Centri fosse appannaggio delle multinazionali e che lo sarebbe stato sempre di più – penso a Gepsa o a Ors Italia. Invece, oggi, nove centri su dieci sono gestiti da cooperative sociali. Il paradosso è che si tratta della stessa forma di organizzazione nata per la prima volta al mondo, nel 1972, su impulso degli internati del manicomio che volevano trovare una forma di riconoscimento dei loro diritti in quanto prestatori d’opera all’interno della struttura e che mirava al loro effettivo inserimento nella società. Da parte nostra, ovviamente, non intendiamo certo criminalizzare la forma cooperativa, ma riteniamo doveroso che il terzo settore si interroghi rispetto a come dei soggetti disciplinati da una legge, la 381/1991 – che assegna a una cooperativa l’obiettivo di perseguire “l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini” – si mettano al servizio di questo sistema brutale in cui di certo non vi possono essere tracce di promozione umana e integrazione sociale.
Chi è deputato al controllo dei Centri di permanenza per il rimpatrio cosa fa?
Il ministro Piantedosi continua a dichiarare che ci sono dei controlli puntuali e precisi. Faccio notare che, in riferimento a Milano, il Cpt nel suo rapporto scrive che la prefettura dichiara di aver svolto i controlli, ma che il procedimento a carico degli enti gestori sulla frode in pubbliche forniture è nato da inchieste giornalistiche: su Altreconomia avevamo svelato i falsi presentati dalla Martinina Srl per vincere l’appalto. Quasi a dire: “se davvero controllate, i giornalisti se ne sono accorti, voi no”. Dati alla mano, i due Cpr più monitorati d’Italia – Milano con sei ispezioni in tre anni e Palazzo San Gervasio con dodici ispezioni in quattro anni – sono quelli su cui pende un procedimento giudiziario per frode in pubbliche forniture. A Palazzo San Gervasio sono state rinviate a giudizio 27 persone tra ente gestore, funzionari di polizia, avvocati e medici. Qualcuno ci deve spiegare come sia possibile che una prefettura non abbia contezza di quello che succedeva all’interno del centro, nonostante le dodici visite di controllo svolte e la parallela indagine della procura che ha visto il rinvio a giudizio per 27 persone.
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Uno strumento prezioso per il vostro lavoro di ricerca e inchiesta è l’accesso civico generalizzato. Di cosa si tratta?
Si tratta di uno strumento che permette a qualsiasi cittadino italiano di ottenere informazioni dalle pubbliche amministrazioni, al di là di quelle che devono essere pubblicate nella sezione delle amministrazioni trasparenti delle pubbliche amministrazioni. È un dispositivo fondamentale utilizzato da gran parte dei principali giornalisti d’inchiesta, penso al caso Assange o alle foto del massacro di Hadita in Iraq, che però sta subendo alcuni colpi e per questo va difeso con i denti. Nel saggio diamo anche conto di quanto le prefetture abbiano ostacolato e continuino ad ostacolare il nostro lavoro, dicendo che abusiamo di uno strumento che non ha l’obiettivo di controllare l’operato dell’amministrazione ma di permettere ai cittadini di conoscere il lavoro che viene svolto. In risposta a questa posizione, facciamo riferimento all’esempio della prefettura di Milano. In quel caso l’accesso civico ci ha permesso di ricostruire che otto protocolli su dieci presentati dall’ente gestore erano falsi e di far emergere quello che succedeva all’interno del Cpr. Attualmente siamo in ricorso al Tar, perché due prefetture – quella di Brindisi e di Potenza – non ci hanno fornito l’accesso ai documenti relativi alle offerte tecniche dei centri di Brindisi e Palazzo San Gervasio su cui abbiamo visto infinite promesse da parte degli enti gestori.
Il Cpr viene spesso venduto come un necessario dispositivo di sicurezza. Quali sono le Sue considerazioni rispetto a questa retorica?
Il Cpr non porta sicurezza, anzi, genera insicurezza perché rende ancora più vulnerabili le persone che transitano al suo interno. Ogni anno meno del 50 percento delle persone trattenute viene rimpatriato. ActionAid, per esempio, ha rilevato che su 6.174 persone transitate nei Cpr nel 2023, il 56 percento è stato nuovamente liberato. Si tratta di persone che possono aver vissuto fino a diciotto mesi in queste strutture. È molto probabile che in questo lasso di tempo abbiano assunto una terapia improvvisata di psicofarmaci, mangiato cibo scadente, trascorso giornate una uguale all’altra. Per questo persone che quando sono entrate erano innocue, vengono restituite frantumate alle comunità che le devono riaccogliere.
Uno strumento fallimentare che, come sottolineate in “Gorgo Cpr”, ha dei costi altissimi anche in termini economici.
Sì. Se si allarga lo sguardo, si nota come questa insicurezza venga generata a colpi di milioni di euro, quasi 29mila euro per un posto ogni anno, sempre secondo ActionAid. A questo poi va aggiunto un altro elemento: il tema del rimpatrio. Le circa 3.000 persone rimpatriate in un anno vengono deportate su charter che lo Stato italiano affitta da compagnie private. Abbiamo stimato che, solo per l’affitto dei velivoli, i rimpatri verso la Tunisia costano oltre 4.000 euro a persona, a cui si devono sommare le spese per almeno tre poliziotti a detenuto. Questo prendendo in considerazione la Tunisia, che è il Paese meno caro, perché è quello più vicino a noi ed è quello con cui l’Italia ha stretto accordi “più forti”. A proposito degli accordi con i Paesi di provenienza, nel libro poi riportiamo l’esempio del Gambia e di come i soldi inviati dai suoi cittadini che si trovano in Europa rappresentino oltre il 30 percento del Prodotto interno lordo del Paese. È quindi assurdo e controintuitivo pensare che Paesi che hanno iniziato da poco a ricostruire la loro economia siano disposti a rinunciare alla principale fonte di sostentamento del loro Stato per accettare centinaia di connazionali, che spesso sono gli stessi che tengono in piedi l’economia del Paese. È un sistema che funziona solo dove i presidenti sono autocrati o soggetti che si vendono all’Europa senza il minimo scrupolo, come appunto la Tunisia.
“Il piagnisteo governativo contro i magistrati è preoccupante, perché si sapeva che da un punto di vista giuridico i centri i Albania non potevano funzionare.”
A che punto è il piano del governo che prevede l’apertura di un Cpr in ogni regione italiana?
Al momento è tutto fermo. Le ragioni sono diverse: da un lato alcuni Comuni filo-governativi si sono opposti all’apertura delle strutture, dall’altro sono emerse difficoltà progettuali su alcuni dei siti individuati. Nel libro facciamo l’esempio di Albenga, dove il sito presentava una serie di problemi relativi all’impatto ambientale e alla sostenibilità del progetto. Sempre nel Ddl Sicurezza il governo ha poi inserito un comma per cui la realizzazione degli eventuali Cpr potrà essere attuata in deroga a qualsiasi norma in materia ambientale e di appalti. Sappiamo che la presidenza del Consiglio dei ministri dovrebbe adottare un DPCM in cui elenca i siti individuati, ma questo non è ancora avvenuto. Nei prossimi mesi quindi dovremo capire cosa succederà.
Quello che si è già verificato è il tentativo di aprire un Cpr (e un hotspot) in Albania. Cosa dobbiamo aspettarci da quel fronte?
Come si sa, anche in questo caso la situazione è attualmente in fase di stallo: sembra che ripartiranno a inizio gennaio 2024. Il recente piagnisteo governativo contro i magistrati è preoccupante, perché si sapeva che – per come erano stati pensati e strutturati e per come è stato ipotizzato di gestirli – da un punto di vista giuridico quei centri non avrebbero potuto funzionare. Anche il ministero sapeva la fragilità dell’impianto albanese. Almeno oggi, con le leggi che abbiamo: basti pensare che le famose procedure accelerate di frontiera su cui si basa il protocollo Italia-Albania, nei primi sei mesi del 2024 (a centri albanesi chiusi) non sono mai state applicate per persone che hanno richiesto asilo nel nostro Paese. Ora vedremo come si pronuncerà la Corte di giustizia dell’Unione Europea sul tema dei “paesi sicuri” e cosa accadrà quando l’Italia implementerà il nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo. Il tema dell’Albania, quindi, è da monitorare con molta attenzione per lo scandalo che è e perché non si tratta di un capitolo chiuso: se i paletti saltano alla fonte, tutto rischia di diventare possibile. In questo senso fanno impressione le dichiarazioni di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che riguardo al tema degli hub in Paesi terzi per gestire i rimpatri delle persone irregolari ha applaudito al modello italiano.
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“Gorgo Cpr” è stato pubblicato a fine novembre e ora state presentando il libro in tutta Italia. Che percezione ha avuto circa la consapevolezza del pubblico sul tema della detenzione amministrativa?
Oggi c’è maggiore consapevolezza, ma sempre in una bolla molto circoscritta. Riuscire a raggiungere anche un pubblico che finora non aveva approfondito questo tema è la sfida che abbiamo voluto raccogliere scrivendo questo libro, che ora vogliamo far vivere nei territori attraverso il racconto e il confronto con le persone che ci verranno ad ascoltare. Insieme a tutti loro vogliamo guardare dentro il gorgo dei Cpr per riuscire finalmente a fare un passo indietro e superare così una volta per tutte questa brutta pagina della Storia del nostro Paese.
Qual è, invece, il Suo personale auspicio?
Da parte mia, vorrei che chi ha posizioni più chiuse sul tema delle migrazioni si rendesse conto che la detenzione amministrativa e i rimpatri sono solo fumo negli occhi che ritarda l’inevitabile momento in cui l’Unione Europea – e l’Italia – dovrà prendere in mano questo tema e affrontarlo diversamente. Quel giorno prima o poi arriverà. Noi intanto stiamo solo perdendo tempo e soldi e stiamo generando una grande sofferenza che in qualche modo, io credo, ci tornerà indietro dalle stesse persone su cui l’abbiamo agita.
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Gli autori
Luca Rondi è giornalista per Altreconomia, dove scrive inchieste e reportage. Ha cofirmato i libri “Respinti, Le sporche frontiere d’Europa” e “Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo”.
Lorenzo Figoni è consulente legale e socio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e Policy advisor per ActionAid Italia. Esperto di politiche migratorie e accesso ai documenti amministrativi, collabora con Altreconomia per inchieste sui Centri di permanenza per il rimpatrio.
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