Film | Recensione

Presence, il fantasma siamo noi

Ora al cinema il nuovo esperimento di Steven Soderbergh, una ghost story con un espediente visivo curioso. Buone premesse, pochi brividi.
Presence
Foto: Screenshot
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    2025, anno ghiotto per i fan di Steven Soderbergh: a pochi mesi dall’uscita di Black Bag il regista statunitense torna in sala con un altro film: Presence, una ghost story che non solo dirige ma, “nascosto” dietro degli pseudonimi, monta, ne cura la fotografia e guida personalmente anche la macchina da presa. L’horror, scritto da David Koepp (alla terza collaborazione con Soderbergh), esce in piena estate, ragion per cui potrebbe passare sotto traccia. Facciamo che invece ci opponiamo.

    Cos’è 

    Presence inizia all’interno di una casa suburbana semi-vuota in cui aleggia uno spirito. Di lì a poco nella dimora si trasferisce una famiglia di quattro persone che ha già i suoi spettri, i Payne: Chris (Chris Sullivan) e Rebecca (Lucy Liu) insieme ai figli adolescenti Chloe (Callina Liang) e Tyler (Eddy Maday).

    Chloe sta affrontando il lutto per la perdita della migliore amica Nadia, morta probabilmente per overdose. Tyler è una promessa del nuoto, un ragazzo poco empatico, viziato dalla madre e perennemente in conflitto con la sorella. Chris, in crisi matrimoniale, cerca di tenere insieme i pezzi della sua famiglia. Chloe inizia a frequentare Ryan (West Mulholland), un amico di Tyler, mentre la Presenza osserva costantemente ciò che avviene fra le mura domestiche.

    La ragazza è la prima ad accorgersi dell’entità finché, quando iniziano a volare oggetti dagli scaffali, anche gli altri membri della famiglia accettano l’idea che ci sia qualcos’altro in casa con loro.

  • (c) NEON

  • Com’è

    La disinvoltura con cui Soderbergh si è sempre mosso tra il cinema indipendente e quello mainstream pieno di star hollywoodiane ha fatto scuola. Sperimentare e giocare con le forme cinematografiche è la sua cifra e Presence ne è l’ultimo esempio in ordine cronologico. Il film è girato in soggettiva totale per tutti i suoi 84 minuti, la macchina da presa rappresenta il punto di vista dell’entità, un protagonista senza volto. La sua prospettiva è anche la nostra: di fatto è come se fossimo noi lo spirito che vaga di stanza in stanza e “sorveglia” gli abitanti della casa. Si finisce così per fare parte del film pur non avendone il controllo in quanto spettatori, restando impotenti, costretti a guardare ciò che accade senza poter intervenire in alcun modo.

    Soderbergh costruisce la suspense, utilizzando lunghi piani sequenza con grandangoli, facendo fluttuare la macchina da presa in un’ambientazione unica, claustrofobica, privilegiando un’ansia costante ai jump scare o a rivelazioni memorabili e apportando così un un tocco personale a questa storia a basso budget e al filone dei film di case infestate. Alla fine Presence è meno un film horror o una tradizionale storia di fantasmi e più un dramma sull’introspezione spirituale, sulle disfunzioni familiari e sui traumi che ci portiamo dietro.

    A sostenere l’opera c’è un’idea vincente realizzata in modo semplice e la prospettiva in soggettiva viene usata in modo originale. Peccato solo che Presence non sviluppi tutti i suoi fili narrativi, ad esempio il matrimonio in declino tra Chris e Rebecca, le attività apparentemente illegali di quest’ultima nell’ambito dell’alta finanza in cui lavora o il disagio mentale adolescenziale ricevono un trattamento più superficiale di quanto si sarebbe potuto desiderare

    I “piccoli film” di Soderbergh brillano spesso per audacia e inventiva ma soprattutto si ha la netta sensazione di quanto il regista, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes per il film cult Sex, Lies, and Videotape e dell’Oscar per Traffic, si diverta a realizzarli. Anche mettendo in conto che l’impronta che lasciano possa restare il tempo di un’estate.