trump_putin_alaska_arrival
Foto: Wikipedia
Politica | Catchword

Scambio di territori

Un’espressione che suona quasi civile, eppure ben descrive quanto emerge dalla recente questione ucraina e dalle prospettive del vertice estivo in Alaska tra Trump e Putin. Ma tra il mettere in conto un sacrificio e subirlo con i carri armati cambia parecchio.
  • Catchword è una rubrica di parole per guardare dietro (o sotto) alle parole. Ogni due settimane Francesco Palermo parte da una parola chiave (catchword, appunto) per spiegare in modo conciso il concetto (o l’inganno) che le sta dietro. Da leggere o da ascoltare in formato podcast.

  • La catchword che secondo molti dovrebbe concludere la tragedia ucraina è “scambio di territori”. Tutte le dichiarazioni diplomatiche ci girano intorno, specie dopo il vertice estivo in Alaska tra Trump e Putin: due che ogni tanto fingono di litigare ma hanno in comune l’obiettivo di abbattere l’ordine mondiale fondato sul multilateralismo. “Scambio di territori” suona quasi civile: io do qualcosa a te, tu dai qualcosa a me. Sembra un accordo tra gentiluomini.

    Un momento: ma l’Ucraina, esattamente, che cosa avrebbe da dare in cambio dell’amputazione del 20 per cento del suo territorio? A seconda delle versioni, o accettare il congelamento dell’attuale linea del fronte (cioè attribuire alla Russia circa il 90 per cento del Donbass), o cedere del tutto il Donbass, ex area industriale a maggioranza russofona, in cambio del ritiro della Russia da altre aree parzialmente occupate. Non è proprio uno scambio. Più o meno significa “tu mi dai ciò che mi sto prendendo illegalmente e io ti lascio quello che non sono ancora riuscito a portarmi via”. Trump, col suo sofisticato linguaggio, l’ha spiegata così: “Ci sarà uno scambio di terre. Roba buona, non roba cattiva. E anche un po’ di roba non buona per entrambi”. Vabbè.

    “Scambio di territori”: a forza di ripeterlo, qualcuno finirà per crederci. O peggio, per abituarsi.

    Che l’Ucraina dovesse perdere un pezzo di sé lo si sapeva da tempo. Con la rivoluzione europeista di Maidan e la presa del potere da parte di una classe dirigente nazionalista (come peraltro sta avvenendo in quasi tutta Europa), è stato subito chiaro alla stessa nuova dirigenza ucraina che la possibilità di entrare in Europa passava per l’amputazione del sudest: russofono, filorusso, poco europeo e soprattutto un fardello economico insostenibile. Ma tra il mettere in conto un sacrificio e subirlo con i carri armati cambia parecchio. Al di là delle terribili conseguenze per la popolazione non filorussa delle zone interessate, che deve scegliere tra assimilazione e fuga, c’è anche la Costituzione, che prevede l’obbligo di difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina: un presidente che cede territori rischia il carcere.

    In realtà, nessuno crede più che il Donbass tornerà ucraino, né lo vorrebbe buona parte della popolazione interessata. L’unica possibilità realistica, per quanto ipocrita (pardon, pragmatica) è congelare il conflitto e dimenticarsene col tempo, come avviene in altri territori post-sovietici (Abkhazia, Transnistria, il Nagorno-Karabakh fino all’anno scorso…), rendendo di fatto il Donbass un protettorato russo. Perché per Zelensky è impossibile riconoscerne l’annessione alla Federazione russa, operata con la forza, mentre per Putin è essenziale ottenere il riconoscimento internazionale. Intanto si vende l’idea, lo slogan, la formula magica, la catchword. “Scambio di territori”: a forza di ripeterlo, qualcuno finirà per crederci. O peggio, per abituarsi.

  • All'episodio in forma podcast


    Disponibile su:  
            
    Spotify  ●  Apple Podcasts  ●  Youtube  ●  Castbox  ●  Amazon Music  ●  Audible  ●  Spreaker  

     

    La serie completa

    Catchword

    I podcast di SALTO