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My Way, l’housing first a Berlino

A Berlino, dove le persone in strada sono circa diecimila, il Senato del Land ha puntato sul modello housing first, potenziando il programma avviato nel 2018 con quattro nuovi progetti. Housing First My Way è uno di questi.
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Foto: unsplash
  • Il report Wohnungslosenbericht 2024, pubblicato a febbraio dal Ministero federale dell'edilizia abitativa, dello sviluppo urbano e dell'edilizia tedesco, rivela che in Germania l’emergenza abitativa colpisce 531.600 persone. Di queste, 439.500 (compresi 136.900 cittadini ucraini) sono inserite in dormitori, nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo o in quello di assistenza abitativa di emergenza; 60.400 vivono in alloggi temporanei e precari e 47.300 in strada.  Sebbene Klara Geywitz, ministra dell'Edilizia abitativa del governo uscente, abbia sottolineato che il fenomeno della grave emarginazione “ha cause diverse, si manifesta in forme eterogenee e non è un problema che tocca esclusivamente i centri urbani”, va detto che – come accade anche in Italia – la popolazione homeless si concentra soprattutto nelle grandi città, su tutte Amburgo e Berlino. Proprio per quanto riguarda la capitale, un’indagine delle organizzazioni del terzo settore stima che l’emergenza abitativa colpisca 50.000 persone e che circa 10.000 di loro siano costrette in strada. Per provare a correre ai ripari, il Senato di Berlino ha implementato nuovi servizi a bassa soglia – centri diurni, dormitori – e ha deciso di puntare sul modello housing first, potenziando il programma avviato nel 2018. In questi anni, i due progetti pilota Housing First Berlin e Housing First für Frauen hanno registrato ottimi risultati: il primo ha aperto le porte di 140 appartamenti per una o due persone, mentre il secondo ha garantito una stabilità abitativa a 117 donne. Alla luce di questi numeri, alla fine del 2022 le istituzioni del Land hanno stanziato un nuovo finanziamento pari a 6,1 milioni di euro. Dal 2023, quindi, hanno preso il via altri quattro progetti, ciascuno rivolto a un target specifico. Housing First My Way è uno di questi. 

  • Boris Heimsoth, coordinatore del progetto berlinese. Foto: Alessio Giordano
  • La casa prima di tutto

    “Housing First My Way lavora con persone singole che soffrono di una patologia psichiatrica o di dipendenza. Si tratta di individui che vivono in strada, nei confronti dei quali gli altri servizi per homeless hanno gettato la spugna. Il nostro scopo è trovare loro un appartamento e, qualora lo richiedano, sostenerle per mantenerlo a lungo termine”. Boris Heimsoth, coordinatore del progetto, spiega così target e obiettivi del progetto con sede a Friedrichshain, uno dei quartieri della capitale maggiormente colpiti dalla gentrificazione e dal conseguente innalzamento dei prezzi delle abitazioni. A differenza di altre realtà che operano secondo il modello housing first, per esempio Housing First Berlin o FiftyFifty a Düsseldorf, My Way non dispone di appartamenti di proprietà e pertanto può prendere in carico solo clienti in grado di coprire le spese per l’affitto. “La nostra utenza è costituita soprattutto da cittadini tedeschi che beneficiano di un assegno sociale o di un sussidio per la locazione attraverso il Jobcenter”, precisa Heimsoth. Si tratta perlopiù di persone che in passato avevano già effettuato l’Anmeldung (la registrazione della propria permanenza a medio o lungo termine nella capitale tedesca), necessaria per beneficiare dei servizi di welfare della capitale.

     

    My Way lavora con persone senza dimora che soffrono di una patologia psichiatrica o di dipendenza.

     

    Il team di My Way è composto da quattro assistenti sociali, una psicologa e un agente immobiliare, il cui compito consiste nel setacciare gli annunci e prendere contatto con agenzie immobiliari e proprietari. L’équipe interdisciplinare si pone come “ponte” tra i locatori e i potenziali inquilini, assistendo entrambe le parti in tutti i passaggi: dal primo contatto alla visita dell’appartamento, dalla stipula del contratto ad affitto calmierato alle eventuali richieste di risarcimento qualora dovessero insorgere problemi. 

    Come previsto dalle linee guida dell’housing first, la procedura di accesso a My Way è piuttosto snella. “Tutto comincia dopo che una persona ha manifestato l’interesse a partecipare al progetto”, spiega Heimsoth. Seguono poi due colloqui con gli assistenti sociali del servizio – uno può avvenire in strada, l’altro in ufficio in un setting formale – e un ulteriore incontro con l’agente immobiliare dell’organizzazione, durante il quale gli utenti hanno la possibilità di esprimere la preferenza rispetto alla zona della città in cui vorrebbero vivere. Questo è un momento particolarmente importante per il percorso e per la relazione tra gli assistenti sociali e le persone homeless. “Di fronte alla domanda 'dove vorresti vivere?', le persone si illuminano – racconta Heimsoth, – perché vedono riconosciuta la loro dignità e, dopo tanti anni, si rendono conto di poter prendere una decisione costruttiva per loro stesse”. 

  • Il modello housing first poggia su otto principi fondamentali. Foto: SALTO/Alin Sellemond
  • Un luogo da cui ricominciare

    Quando gli è stato chiesto in quale zona della città avrebbe voluto abitare, H. ha risposto senza esitazioni o dubbi: “Boxhagener Platz” (una delle piazze principali di Friedrichshain). L’uomo non riusciva proprio a immaginare la sua vita lontano dalla “sua” piazza, dove aveva vissuto giorno e notte per una decina di anni prima di rivolgersi a My Way. I prezzi delle case in quell’area specifica, però, sono proibitivi e così, supportato dagli assistenti sociali dell’organizzazione, H. è sceso a compromessi con sé stesso e si è aperto ad altre opzioni. Da due anni abita in un piccolo appartamento a qualche centinaio di metri da “Boxi”, che oggi guarda con occhi un po’ diversi quando la attraversa prima di rientrare a casa. H. è una delle dieci persone seguite da My Way che vivono in un appartamento in affitto. Dieci traiettorie di vita, che passando direttamente dalla strada alla casa, hanno ritrovato la fiducia e la sicurezza per guardare al futuro.

    La prima a varcare la soglia dell’ufficio di Friedrichshain, nel 2023, è stata M.. Per mesi la donna aveva ignorato le bollette e le lettere del proprietario di casa, che si erano accumulate una dopo l’altra nella sua cassetta postale. Il gioco regge fino al giorno in cui la realtà le si presenta sull’uscio di casa nelle vesti di un ufficiale giudiziario con in mano l’ingiunzione di sfratto. M. lascia il suo appartamento e spende i suoi ultimi risparmi per dormire alcune notti in una pensione. Una volta finiti i soldi, si ritrova per strada con la sola compagnia dei suoi demoni personali. Grazie al passaparola, viene a conoscenza di My Way e del nuovo progetto di housing first. Inizialmente M. tentenna, attanagliata dal timore di “fallire di nuovo”, ma dopo qualche giorno decide di concedersi un’altra occasione. 

     

    Attualmente My Way segue 32 persone. Dieci di loro vivono in un appartamento in affitto.

     

    Si presenta quindi nell’ufficio di Friedrichshain, dove per la prima volta dopo tanto tempo si confronta con un’assistente sociale. Insieme a lei apre tutte le lettere che le erano state recapitate nei mesi precedenti, scoprendo che i debiti da saldare non riguardavano solo l’affitto. Una situazione complicata, quella di M., che però contando sul supporto di My Way questa volta sceglie di affrontare. Il primo passo è il contatto con un servizio di consulenza debitori, con il quale ricostruisce nel dettaglio il suo quadro debitorio, cui segue la procedura di ristrutturazione del debito. Parallelamente il team di My Way la supporta nel rapporto con il Jobcenter e nella ricerca di un appartamento. Complici i suoi precedenti e, soprattutto, un mercato immobiliare saturo, impiega quasi due anni per trovare una casa. Oggi M. ha un lavoro e paga l’affitto in autonomia, senza dipendere più dai sussidi dell’Ufficio del lavoro di Berlino. 

    Alcune persone, tuttavia, non riescono ad adattarsi facilmente alla sicurezza di un’abitazione. È il caso di J., che ha vissuto diversi anni in una tenda nei pressi del Wannsee, prima di aderire al progetto di housing first. Con il sostegno di My Way trova un appartamento in affitto, che tiene per settimane privo di mobili e soprammobili e con le finestre perennemente aperte. “Era come se non credesse del tutto di aver lasciato dietro di sé la precarietà della strada”, spiega Boris Heimsoth. J. impiega un po’ di tempo per abituarsi alla nuova realtà. Poi un giorno capisce che quella casa è davvero sua, allora chiude le finestre, pronto a iniziare la sua nuova vita. 

  • L'housing first si fonda sul diritto all'abitare. Foto: Alessio Giordano
  • Un cambio di paradigma

    La prospettiva di Boris Heimsoth sul lavoro sociale è cambiata molto da quando coordina il progetto di housing first. “Vengo da un decennio di esperienza nel cosiddetto ‛sistema a gradini’, in cui il supporto alla persona avviene secondo un meccanismo premiante, mentre qui il nostro compito è sviluppare una relazione che non sia l’esercizio di un controllo ma un vero sostegno”.  Va da sé che uno dei principi fondamentali di questo approccio – e del modello housing first in generale – è l’autodeterminazione degli individui.  Fedele a questo principio, il team di My Way propone agli utenti che hanno fatto il loro ingresso in un appartamento un ventaglio di offerte, che però le persone non sono obbligate ad accettare. Per esempio, se una persona ha una dipendenza da sostanze, non deve seguire per forza un percorso terapeutico. In casi di questo tipo, spiega Heimsoth, “lavorare sul mantenimento dell’appartamento e sulla riduzione del danno è già un ottimo risultato”. 

     

    “Il nostro compito è sviluppare una relazione che non sia l’esercizio di un controllo ma un vero sostegno”.  

     

    L’équipe di My Way, dunque, interviene solo quando la persona le affida un compito: riprendere i contatti con la famiglia, poter usufruire di un supporto nella ricerca lavoro, iscriversi a un corso professionale. Questa attitudine fa sì che le persone, diffidenti verso la società dopo tanti anni in strada, si riavvicinino ai servizi e affrontino con maggiore responsabilità il percorso che scelgono di intraprendere. Oggi capita che gli utenti telefonino per avvisare che non riusciranno a presentarsi a un incontro oppure, se non sentono gli assistenti sociali per un paio di settimane, siano loro a chiamare per fissare un appuntamento in ufficio. “Nell’housing first senti che il rapporto di potere, comunque presente, è un po’ meno sbilanciato – sottolinea il coordinatore del progetto. – Lo avvertono anche gli utenti e questa sfumatura aiuta a costruire e coltivare una relazione di supporto a lungo termine”.

  • Heimsoth e la collega Kristina Kempel presentano il progetto alla fiera delle Scuole Evangeliche di Berlino. Foto: My Way Berlin
  • A due anni dall’inizio del progetto, i risultati di My Way sono in linea con quanto dichiarato dal Bundesverband Housing First, organismo nazionale che raggruppa le organizzazioni del terzo settore che operano secondo questo modello di sostegno, che in una nota ha ribadito che “oltre il 90 percento degli aderenti vive in un alloggio stabile a lungo termine. In queste condizioni, la loro salute fisica e mentale delle persone è migliorata notevolmente e il loro inserimento sociale e nel mercato del lavoro è più efficace rispetto ai modelli di sostegno precedentemente adottati”. 

    Certo, pensando al futuro, Heimsoth non si accontenta di quanto fatto finora e guarda già verso nuovi orizzonti. “Quest’anno vorremmo sviluppare il lavoro con i peers, ossia persone che hanno vissuto un passato in strada e che mettono a disposizione la loro esperienza nella relazione d’aiuto con chi si trova oggi in questa condizione”.  Lavorando a fianco degli assistenti sociali, i peers contribuiscono a creare un clima di fiducia e accoglienza e riescono a instaurare un rapporto ancor più paritario con gli utenti. “Non ci sono ancora persone che hanno deciso di uscire dal progetto – chiosa Heimsoth –, ma la prospettiva di allargare il nostro pool e dare al contempo la possibilità di lavorare a chi ha difficoltà ad accedere al mercato del lavoro deve essere un nostro obiettivo”.

  • Cos’è l’housing first

    Sviluppato dallo psichiatra americano Sam Tsemberis negli anni ’90 a New York, l’housing first si fonda sul diritto all’abitare e parte dal presupposto che, senza una situazione abitativa stabile e confortevole, per una persona sia quasi impossibile risollevarsi da una condizione di grave marginalità, iniziare un processo di cura e attuare un percorso di reinserimento sociale. Le persone con anni di vita in strada o a serio rischio di perdere l’abitazione, quindi, hanno l’opportunità di accedere subito a un appartamento autonomo “senza passare dal dormitorio”, potendo contare sul supporto di un’equipe multidisciplinare.

     

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