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Fiume Adige

Dalla Val Venosta al mare Adriatico. In una soleggiata giornata d’autunno.
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  • Percorrendo l’autostrada del Brennero il fiume Adige è una presenza rassicurante, una sorta di corrimano, uno scivolo ideale che dall’Alto Adige porta al mare. Un corso d’acqua lungo quattrocentodieci chilometri la cui sorgente si trova a 1.550 metri sul livello del mare nei pressi del lago di Resia. 

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    A Malles Venosta, all’ingresso di un albergo locale, campeggia, incastonata nel muro, un’insegna di marmo con la scritta che non ti aspetti: “1045 m. sopra il livello del mare adriatico 1045 m. Meereshöhe”. Rileggo entusiasta perché trovo bellissimo che l’altezza sul livello del mare riportata, solitamente indicata su un medio mare, qui ci dica che non è misurata su un mare qualunque bensì proprio su quello Adriatico. In una soleggiata giornata d’autunno decido di omaggiare il fiume percorrendone l’intero itinerario. Idealmente getto un legnetto nella sorgente e lo inseguo fino alla foce laddove sono certa di ritrovarlo. Il fiume attraversa o lambisce diverse città: Merano, Bolzano, Trento, Rovereto, Verona, Legnago, Cavarzere. Più ci si avvicina alla foce e maggiormente pare si voglia riverire questo fiume con paesi che nel loro nome lo citano quali Piacenza D’adige, Santa Maria d’adige e, da ultimo, Cavanella D’adige. 
     

    Domani potrei rifare lo stesso viaggio e ritrovarlo in uno scorrere identico, ma nuovo. 

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    Secondo fiume italiano dopo il Po, terzo per ampiezza di bacino, quarto per volume d’acque. La discesa lo carica, lo gonfia. Malgrado assuma una portata sempre maggiore il suo scorrere elegante appare morbido e armonicamente sinuoso. E’ il mio fiume. Il fiume cui sono affezionata e che mi è familiare fin dalla tenera età. Tante le escursioni in Val Venosta e lungo le sue rive fino a raggiungere Brentino. Dall’alto, sopra Brentino, incastonato nella montagna si erge il Santuario della Madonna della Corona che, con la sua maestosità, pare volerne benedire il corso. Dal finestrino dell’automobile ne scorgo le anse e immagino la vita dentro di esso. La flora e la fauna che lo abitano. Entrambe mutano al variare del reticolato geografico del percorso. L’approcciarsi alla sua foce è una sorta di meditazione, un viaggio onirico e, mentre sto pensando a ciò mi addentro nella nebbia che non mi aspettavo e che mi intimorisce. Mi fermo presso una stazione di servizio e, al bancone del bar, sento un camionista che racconta della nebbia e così scopro che ha una sua classificazione in base alla densità che va in senso decrescente, da nebbia densa a fitta a spessa. La respiro e mi pare abbia una sua identità, un suo profumo. La visibilità è accettabile e proseguo il viaggio. Mi trovo a una ventina di chilometri dalla foce. Lungo l’argine si vedono pioppeti di alto fusto, alberi eleganti, slanciati oltre i quindici metri in filari ordinati. Si notano anche salici piangenti che con i loro rami penduli e sottili rivolti verso il basso paiono voler pescare nel fiume. 

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    Tali comunità vegetali lungo i corsi d’acqua vengono definite di vegetazione riparia. Hanno un ruolo molto importante nella conservazione del suolo e forniscono cibo e riparo agli animali acquatici. Supero un suggestivo ponte ferroviario e incrocio un sorridente venditore di scope in bicicletta. Oltrepassati ulteriori ponti, nei pressi di Sotto All’adige, la nebbia aumenta e la veduta si fa surreale e bellissima. Sono frastornata da questa cartolina d’altri tempi che rimanda un paesaggio evanescente. In questa condizione in cui l’organo di senso appare offuscato, mi sforzo di cogliere forme e colori. Predomina il bianco e nero. Poi d’improvviso, come il vapore di un treno, la nebbia si attenua e le immagini diventano più nitide. Il panorama con la torre acquedotto di Boscochiaro si scorge nuovamente a colori. Poi daccapo bruma in una sorta di danza. Non filtra nemmeno un raggio di sole. Il terreno al di là del ciglione, nei pressi di Portesine, è paludoso, intriso d’acqua e alcuni casolari disabitati, da chissà quanti anni, sono ricoperti di vegetazione. Le imponenti dimensioni lasciano intuire che fossero abitati da almeno tre generazioni. Immagino i rumori della vita di allora. Il fiume percorre gli ultimi chilometri prima di sfociare nel mare e io lo affianco lungo l’argine in una sorta di saluto. Rifletto che non sarà un saluto definitivo. Domani potrei rifare lo stesso viaggio e ritrovarlo in uno scorrere identico, ma nuovo. Alla foce dell’Adige salgo sulla torre panoramica da dove ammiro quel famoso mare Adriatico scovato a Malles. Nel raggio di pochi chilometri sfociano il Brenta, l’Adige e il Po. 
     

    Rifletto che dove abito la domenica si va a passeggiare nei boschi alla ricerca di funghi, di mirtilli o altre bontà del sottobosco.

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    Mi dirigo verso Rosolina Mare fino a giungere a Porto Caleri. E qui mi si presenta un paesaggio inaspettato. Nel tardo pomeriggio mi addentro lungo un sentiero segnalato nella pineta, poi nella macchia e, dopo poco, vengo risucchiata dalla vegetazione delle sabbie. La nebbia crea un’atmosfera suggestiva e inquietante. Respiro profumi intensi, alcuni noti. Mi fermo per cercare tra i ricordi ed eccolo riaffiorare, quello delicato dell’elicriso e quello pungente del ginepro. Un ponticello sovrasta una palude popolata da gabbiani e piccoli granchi. Giungo sulla spiaggia lunga e, apparentemente, deserta. La nebbia a farla da padrona unitamente a una grande quantità di legname spiaggiato. Trovo un tronco con le sembianze di un serpente e mi chiedo se sarà arrivato al mare anche il mio legnetto gettato, molti chilometri a monte, nella sorgente dell’Adige. Percorro la spiaggia densa di piante dunali modellate dal vento, una meravigliosa spiaggia incontaminata e preservata. Un luogo vitale per flora e fauna in cui regna la quiete, la lentezza, in cui posso perdermi ad ammirare la natura. Proseguo la passeggiata e scorgo diverse persone immerse nella bassa marea intente a raccogliere quelli che scopro essere i cannolicchi o cappelunghe, molluschi pregiati, che vivono nella sabbia a profondità variabile da pochi metri a oltre 20 metri di profondità. Mi spiegano che la loro presenza si palesa con due sifoni a forma di otto visibili sulla sabbia. I molluschi si pescano, in modo amatoriale, utilizzando sale da cucina che viene messo sopra i fori nella rena. I cannolicchi che ne sono particolarmente ghiotti fanno fuoriuscire una sorta di lunga bocca per appropriarsene, visibile al pescatore, che, per essi, risulta fatale. Per taluni un passatempo, per altri, un lavoro ben remunerato. Vengo così a conoscenza che la domenica, in una sorta di rituale collettivo, le famiglie della zona usano ritrovarsi sulla spiaggia per la pesca. Frattanto la nebbia si infittisce, il cielo comincia a imbrunire, e i più audaci proseguono la ricerca con l’ausilio di torce elettriche e lampade frontali. Rifletto che dove abito la domenica si va a passeggiare nei boschi alla ricerca di funghi, di mirtilli o altre bontà del sottobosco. Mentre torno al parcheggio mi viene alla mente l’usatissimo proverbio “Paese che vai usanza che trovi”. Ed è proprio questa la bellezza del mondo.