Kultur | Stefano Massini

Il "Mein Kampf" di Stefano Massini

Un grande successo teatrale per un testo ambiguo e in parte problematico
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  • Il "Mein Kampf" di Stefano Massini: un grande successo teatrale per un testo ambiguo e in parte problematico

    Lo spettacolo ha avuto un enorme successo: il pubblico in piedi applaude entusiasta la rappresentazione di Mein Kampf, andato in scena presso il Teatro Stabile di Bolzano. L’autore e attore Stefano Massini ringrazia, visibilmente provato dopo un monologo di quasi un’ora e mezza, in cui si è calato nei panni di Hitler, pur senza mai imitarlo né nella mimica, né nella gestualità o nell’eloquio, ripercorrendo alcune tappe fondamentali della sua biografia fino agli anni precedenti il fallito putsch di Monaco del 1924. Il testo rappresenta una sorta di distillato poetico, con numerose riprese e ripetizioni di alcuni leitmotiv, della prima parte dell’opera Mein Kampf del dittatore tedesco, con l’aggiunta di alcuni passi presi da altri suoi scritti, discorsi o conversazioni. La prestazione attoriale di Massini è superba, le variazioni di tono, di volume, le pause, le ripetizioni, i silenzi, contribuiscono a rendere la recitazione coinvolgente. Anche la scenografia, nel suo minimalismo, appare convincente: unico requisito è una piattaforma bianca inclinata, che rappresenta il foglio su cui Hitler scrive il suo testo e su cui si muove l’interprete, dopo un breve prologo recitato sul proscenio. A più riprese scendono o cadono dall’alto degli oggetti, una valigia e un caftano, un mucchio di libri squadernati, dei frammenti di vetro, il tutto accompagnato da rumori martellanti e spesso assordanti. 

    Come scritto e ripetuto in più occasioni, Massini intende affrontare un testo tabuizzato per molto tempo, nella convinzione, ripresa da Primo Levi, che solo la conoscenza del male possa aiutare a evitarne la ripetizione. In realtà, esistono in Germania, in Italia e in altri paesi, diverse edizioni del Mein Kampf pubblicate soprattutto dopo che sono scaduti i diritti d’autore nel 2015. A partire dal 2016 è stata pubblicata in Germania un’edizione critica dell’opera, che nonostante le circa 3500 note esplicative che finiscono per costituire una sorta di cordone sanitario attorno ai contenuti ideologici del testo, è rimasta per anni ai primi posti delle classifiche di vendita. In Italia sono presenti almeno quattro traduzioni, di cui mi limito a ricordare l’edizione curata e commentata da Francesco Perfetti, del 2016, che riprende in gran parte la traduzione del 1934, e l’edizione critica a cura di Vincenzo Pinto, intitolata La mia battaglia, del 2017. È tuttavia evidente che un’opera teatrale si rivolge a un pubblico ben più vasto di quello dei lettori dell’opera originale, utilizzando strumenti diversi e perseguendo soprattutto differenti finalità. 

    Nelle intenzioni di Massini c’è soprattutto l’intento di ripercorrere il processo di formazione del futuro dittatore e la sua scoperta della politica come discorso seduttivo. Il pezzo teatrale racconta quindi la storia di un piccolo uomo dalle smisurate ambizioni, che provenendo dalla miseria materiale e culturale di un angusto paesino della provincia austriaca è mosso dal desiderio di sfuggire all’irrilevanza e di cambiare addirittura la storia e il mondo. Egli odia tanto la mentalità succube del proletariato e della piccola borghesia che anche la vuota frivolezza e arroganza dell’alta borghesia viennese. Quasi per caso, in seguito a una sorta di epifania avvenuta in un giorno di gennaio del 1911, il suo odio si focalizza sugli ebrei, considerati come parassiti, che penetrano e disgregano dall’interno il tessuto sociale. Una seconda rivelazione ha luogo all’ospedale militare in Pomerania, nell’autunno 1918, dove Hitler era stato ricoverato in seguito al suo ferimento al fronte in Francia. Egli acquista in quell’occasione la consapevolezza della propria missione, riconoscendo come proprio la debolezza e la frustrazione del popolo tedesco potevano venir trasformate in forza positiva di rivolta. Il terzo riconoscimento fondamentale avviene una sera del 1919, quando Hitler, spiando a Monaco i comizi di diverse forze politiche, si rende improvvisamente conto che per parlare al popolo non servono concetti, teorie o argomenti, perché non bisogna rivolgersi alla sua parte razionale, alla testa, bensì alla sua parte più istintuale, alla pancia, “dove l’istinto regna incontrastato, fra rabbia, orgoglio, paura.”

    Al di là di qualche facile analogia con il populismo della politica presente, il messaggio dell’opera risulta per certi versi ambiguo e per altri anche decisamente problematico. Massini racconta infatti la vita di Hitler solo e unicamente dal punto di vista di quest’ultimo, seguendo quindi in definitiva il suo schema di idealizzazione autocelebrativa, senza alcuna presa di distanza critica o ironica. Solo nel prologo il testo conduce lo spettatore dapprima nel maggio del 1933, quando lo scrittore tedesco Erich Kästner fu testimone dei roghi di libri, e poi nell’immediato dopoguerra, dove lo scrittore afferma che i nazisti stessi erano un libro e che tutto l’orrore appena trascorso era la conseguenza delle parole di un libro, vale a dire appunto del Mein Kampf di Hitler. 

    L’approccio di Massini alla figura di Hitler potrebbe essere considerato dunque una variante della tendenza cosiddetta “intenzionalista” delle numerosissime ricerche sulla figura del dittatore tedesco, in quanto vede non solo in Hitler e nella sua ideologia, bensì più concretamente nel Mein Kampf la vera origine e causa dei crimini del nazionalsocialismo. Dato questo approccio, stupisce, tuttavia, che dei diversi contenuti ideologici presenti nel Mein Kampf venga considerato nel testo teatrale solo l’antisemitismo, mentre manca qualsiasi accenno al tema più vasto del razzismo biologico e del mito ariano, all’odio contro il bolscevismo, all’idea dello “spazio vitale” a Est, all’“Anschluss” dell’Austria, ai piani di politica estera, alla critica al parlamentarismo ecc.

    La scelta stessa di attenersi all’autorappresentazione fornita da Hitler dei suoi primi trent’anni di vita, quando non aveva raggiunto in fondo ancora nulla, esclude poi a priori l’approccio “funzionalista” della ricerca, che sottolinea invece l’indeterminatezza delle premesse ideologiche del dittatore, attribuendo a diversi soggetti e in particolare alla macchina burocratica del Reich ogni responsabilità. Non trovano posto nel testo, evidentemente, considerazioni sulle numerose fonti (non solo tedesche) dei principali contenuti ideologici del Mein Kampf, né riflessioni sugli aspetti economici e sociali, sia nazionali che internazionali, che hanno favorito l’avvento del nazionalsocialismo, e nemmeno sulle strategie comunicative che hanno contribuito alla creazione e alla diffusione del mito di Hitler. 

    Secondo alcune dichiarazioni di Massini, l’intento di una simile rappresentazione ‘dimessa’ della figura di Hitler, a partire da una prospettiva soggettiva limitata, sarebbe stato quello di non demonizzare il personaggio, per farlo apparire, secondo l’idea arendtiana della “banalità del male”, come “uno di noi” e suscitare quindi negli spettatori la domanda sull’intrinseca predisposizione al “male” di ogni essere umano. Nonostante l’importanza storica e filosofica dell’idea della “banalità del male”, è stato nel frattempo dimostrato come Eichmann, a cui era stata applicata in origine, sia stato tutt’altro che un eroe “banale”. Questa concezione non può invece a mio parere essere applicata in nessun caso alla figura di Hitler, senza correre veramente il rischio di banalizzarla. 

    Più che di banalizzare Hitler, il testo di Massini corre tuttavia il rischio di deresponsabilizzarlo. Non è un caso, infatti, che tutti e tre i momenti topici che segnano nel dramma le tappe fondamentali dell’evoluzione di Hitler, vale a dire la diagnosi che considera gli ebrei come malattia della Germania, l’acquisizione della consapevolezza del proprio ruolo per trasformare in forza la prostrazione della nazione e infine il riconoscimento della natura irrazionale del discorso politico, abbiano l’aspetto di una rivelazione: in questo modo, infatti, egli si trasforma nel mero strumento di “una forza superiore, arcana e inesplorabile”, divenendo così non imputabile. 

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Luca Marcon Sa., 12.10.2024 - 17:15

Consiglio soprattutto l'edizione della Rusconi Libri, con l'introduzione di Pierluigi Tombetti:
https://www.unilibro.it/libro/hitler-adolf/mein-kampf-la-mia-battaglia/…
La particolarità di questa edizione non è tanto il testo quanto il lavoro di Tombetti - che tra l'altro occupa quasi metà dell'intero volume -, attraverso il quale viene illustrata la base ideologica del nazismo.
Da segnalare in particolare il pezzo dedicato a C.G.Jung, di fatto tra i pochissimi intellettuali dell'epoca, forse l'unico, ad aver compreso realmente, e con una chiarezza stupefacente, sia cos'era il nazismo che dove si sarebbe andati a parare. Il titolo del capitolo è:
«L'indagine di Carl Gustav Jung e l'archetipo Wotan/Odin».
Come base di partenza, invece, il seguente:
«Il Volk: sangue, spirito e fratellanza razziale. Il concetto base per capire il Mein Kampf, il nazismo e le filosofie razziali».
Infine, la sinossi:
«"Mein Kampf" è il testo scritto da Adolf Hitler dopo il fallimento del colpo di Stato di Monaco del 1923, nel quale egli enuncia la sua folle ideologia, compreso l'antisemitismo, che avrebbe poi messo in pratica una volta giunto al potere. Pubblicato in due parti nel 1925 e 1926, il libro sulle prime ottiene scarsa attenzione; ma quando viene divulgato nel 1930 riscuote un notevole successo. Dettato in parte all'amico di prigionia Rudolf Hess, ritenuto da molti il più fedele fra i suoi seguaci, affronta varie tematiche: antisemitismo e conseguente affermazione della supremazia della razza ariana; esaltazione della figura politica di Benito Mussolini; critica nei confronti del marxismo, netto rifiuto del bolscevismo e molto altro. Considerato uno dei bestseller del XX secolo, ha rappresentato il vertice della propaganda e dell'ideologia dello sterminio nazista [...]».

Sa., 12.10.2024 - 17:15 Permalink
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Lorenzo Ferrarese Mo., 14.10.2024 - 09:18

Non entro nel merito della messa in scena e della recitazione che, in ogni caso, mi sono sembrate ottime, anche se il corpo a corpo tra l’attore solo in scena e il soggetto narrato, solo nel mondo, potrebbe creare nello spettatore una sensazione di complicità che si potrebbe trasformare in una sorta di empatia nei confronti del soggetto stesso. Ma ci devo ancora pensare.

Mi pare che il tuo bel pezzo colga con precisione l’ambiguità e, in ultima analisi, la pericolosità di un’operazione culturale agìta solamente per porre in rilievo non tanto la banalità del male di arendtiana memoria quanto l’individualità del male, incarnata nella parola che tu hai più volte adoperato: rivelazione.

Questa rappresentazione profondamente individualistica si pone perfettamente nella scia di quella personalizzazione delle responsabilità che concede agli altri di distinguersi dall’uno e di autoassolversi da ogni colpa, (in caso di sconfitta) scaricando le responsabilità sul pazzo visionario di turno (Hitler, Mussolini, Napoleone, ecc.) o, (in caso di vittoria) accodandosi al suo successo (Cristo, Stalin, ancora Hitler e Mussolini…).

Questa operazione porta a mettersi a posto la coscienza, a non approfondire né dal punto di vista storico né tantomeno filosofico l’origine di pensieri e ideologie di cui, volenti o nolenti, siamo tuttora impregnati, scaricando su individui la responsabilità di quanto successo, senza porsi domande e dubbi su se stessi e sulla propria accettazione di situazioni aberranti.

I volonterosi carnefici di Hitler (Daniel Jonah Goldhagen) sono sempre attivi e pronti a rialzare la testa, dopo aver rinnegato il loro capo, inventandosi narrazioni che per decenni hanno infestato la storiografia europea e non solo.

Narrazioni che in Italia hanno portato agli Italiani brava gente e al Mussolini aveva ragione, sono i suoi collaboratori che lo hanno tradito, poverino.

In questo sta dunque la pericolosità dello spettacolo di Massini: sotto sotto suggerire che Hitler fosse un profeta visionario, certo con idee sbagliate, ma in fondo quasi simpatico nel suo lottare contro i mulini a vento di un capitalismo disumano (ed ebreo…). E celare che proprio i totalitarismi fascisti e nazisti nascono e si nutrono nel grembo di questo stesso capitalismo. La storia raccontata attraverso puerili semplificazioni che rifiutano la complessità dell’analisi giudicata di parte e snobistica.

Risultato: pubblico applaudente in modo delirante (una mia amica presente in sala lo ha addirittura definito nazisimpatizzante), grato probabilmente (e inconsciamente) all’autore per aver loro fornito gli strumenti per crearsi la propria narrazione autoassolutoria.

Il tutto in perfetta buona fede, si spera. E ciò sarebbe ancora più grave.

Mo., 14.10.2024 - 09:18 Permalink
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Luca Marcon So., 20.10.2024 - 11:08

Devo dire grazie al signor Ferrarese (il cui commento mi precede) perché mi ha permesso di cogliere aspetti dell'articolo che, ad una lettura evidentemente troppo rapida, mi erano sfuggiti.
Mi limito ad un solo punto.
Il concetto di «autoassolversi da ogni colpa [...] scaricando le responsabilità sul pazzo visionario di turno» qui in "Sudtirolo" ha raggiunto vette quasi parossistiche: basti pensare al mythos narrativo dei sudtirolesi autoproclamatisi vittime di entrambi i regimi (fascista e nazista) ma che nel contempo raggiungono l'autonomia con la cosiddetta «generazione Wehrmacht» (copyright Leopold Steurer), ovvero sudtirolesi ex nazisti perdonati, riabilitati e saliti al potere, della SVP.
Su questa ed altre questioni ne ho scritto di recente qui:
https://salto.bz/de/article/26112023/sulluso-politico-della-storia
e qui:
https://salto.bz/de/article/07042024/la-germania-si-che-ha-fatto-i-conti

So., 20.10.2024 - 11:08 Permalink