Il migrante filosofo
“Negro. Lettera ad una madre” (Edizioni Lìbrati, 2018) è un libro intenso e spiazzante, che contesta alla radice l'immagine dell'immigrato povero e marginale alla quale siamo abituati. L'ha scritto un giovane camerunese con la passione della letteratura e della filosofia. Il volume sarà presentato dall'autore e dal professor Gerardo Acerenza alla libreria Ubik di Bolzano, venerdì 5 aprile alle ore 18.00.
Salto.bz: Lei è arrivato in Italia in aereo, con un progetto di studio, quindi seguendo una via privilegiata. Questo l'ha davvero aiutata nel percorso di inserimento nella società di arrivo, oppure ha avuto le difficoltà che riguardano i migranti che affrontano il viaggio con modalità più rischiose?
Christian Kuate: Sono arrivato nel 2007, grazie ad un progetto d’accordo fra l’Italia e il mio paese, il Camerun, che prevedeva e prevede che dei giovani desiderosi di continuare gli studi in Italia possano ricevere il visto per fare il viaggio, a condizione di soddisfare alcuni requisiti: avere in tasca una maturità, seguire un corso di lingua italiana di livello B1 (CELI) e superare l’esame finale. A ciò bisogna aggiungere la scelta di un’università italiana nel dossier di richiesta del visto. Quindi, in effetti, si potrebbe dire che sono stato un privilegiato, dato che molti non hanno questi requisiti. Non tutti i migranti hanno studiato fino alla maturità, per esempio, non tutte le famiglie hanno abbastanza soldi per pagare questi corsi di lingua. Poi, adesso che sono sempre più numerosi i candidati e poche le quote richieste dal governo italiano, sono in molti quelli che riescono a superare l’esame finale del CELI ma non ottengono il visto. Intorno a questo CELI, in Camerun, si è sviluppato tutto un business che coinvolge sia camerunesi che italiani. Insomma, quando sono arrivato ero già un po’ avanti dal punto di vista dell’integrazione: sapevo bene la lingua, almeno meglio di chi arrivava nei barconi, e mi sono subito iscritto all’università. Posso quindi dire di essermi “integrato” velocemente, però bisogna intendersi su cosa significa “integrarsi”...
Ce lo vuole spiegare lei?
I migranti dei quali parlo nel libro non sono tanto quelli che arrivano con modalità rischiose. L’immagine del migrante illegale che, proprio per via della sua difficile situazione, è destinato a restare al margine della società corrisponde a un cliché, ad un’immagine ormai banale: si tratta di uno che non dovrebbe neppure esserci, quindi di una situazione anomala. Voglio dire, il presupposto di un tale ragionamento è che chi arriva legalmente e soddisfa i requisiti richiesti si trova alla pari con tutti gli altri, cittadini italiani o no. Col mio libro ho voluto dire proprio il contrario. C’è una discriminazione di fondo che colpisce chiunque, il migrante illegale, certo, ma anche chi ha tutti i requisiti per integrarsi. È come un soffitto di vetro che gli impedisce di elevarsi oltre un certo punto, un soffitto che taglia in qualche modo le sue ambizioni, e corrompe l'ottimismo e l'umore. Quindi l’integrazione c’è stata, almeno all’inizio. Ma è stata soltanto superficiale. All’inizio sembra reale, sincera. Poi col tempo ci si accorge dei suoi limiti.
Cosa ricorda delle sue prime settimane a Trento? E perché ha scelto proprio Trento per cominciare i suoi studi?
Ho scelto Trento perché girava voce che la qualità di vita studentesca fosse la migliore in Italia. Ho uno zio che allora viveva a Milano, lo stesso zio che mi ha permesso di venire in Italia. Avrebbe potuto iscrivermi in qualche università a Milano, anche perché i miei genitori non volevano che mi ritrovassi da solo, il loro desiderio era che mio zio continuasse a vigilare su di me, magari tenendomi sempre a casa sua. Invece lui mi ha portato fino a Trento, l’università che avevo scelto su suo suggerimento. Le mie prime impressioni a Trento sono state quelle di una città chiusa. Arrivo da una città, Douala, che è la capitale economica del mio paese, e che si affaccia sull’oceano Atlantico. Lì il terreno è abbastanza piatto, lo sguardo porta molto lontano. Invece, a Trento, le montagne sembravano ergersi intorno alla città e bloccare la vista. Questa immagine della vista “tappata” – “vue bouchée” in francese – è un’espressione cara a Merleau-Ponty. Però, ed immagino che potrebbe essere il sottinteso della domanda, questa chiusura che notavo non comportava nessun riscontro di tipo psicologico. D’altronde, non conoscevo come fossero realmente i trentini o in generale gli italiani. È solo col tempo che mi sono fatto un’idea. Quindi il termine chiusura è da considerarsi esclusivamente dal punto di vista geografico, topografico.
Perché ha scelto la facoltà di filosofia?
Ho sempre avuto una forte passione per la filosofia e la letteratura. Mi ricordo che già alle scuole superiori scrivevo delle storielle; poi avevo altri quaderni nei quali cercavo di definire la mia concezione del mondo. Rileggendoli oggi mi viene spesso da ridere, perché alcune idee sono ridicole. Voglio solo far capire quanto fosse pregnante quella passione per la letteratura, per la filosofia. La mia è stata una scelta piuttosto logica, anche se i genitori non erano d’accordo.
Il libro ha un titolo molto forte, provocatorio. Oppure trova che in generale la parola "negro", al di là del politically correct che ne inibisce l'uso, sia più espressiva e utile a farci capire ciò che voleva dire?
C’entra molto la casa editrice, nella scelta di quel titolo. Quello francese è: “Lettre d’un mbenguiste à sa mère”, cioè, tradotto letteralmente, “lettera di uno mbenguista a sua madre”. Nel gergo del mio paese, la parola “mbenguista” si riferisce ad un Camerunese che vive fuori dalla patria, specie in Occidente. In altri termini, un Camerunese che vive dentro il paese chiamerà quello che vive fuori, mettiamo in Francia, un “mbenguiste”. È una parola che abbiamo cercato di rendere in Italiano, nella traduzione del titolo del libro. Abbiamo pensato a “immigrato”, “extracomunitario” oppure “Camerunese”, tutti termini che rendevano soltanto parzialmente la ricchezza di quel “camerunismo”. A questo punto è intervenuto l'editore, con la precisa volontà di “dare un pugno allo stomaco al lettore”. Si tratta di un titolo che calza a pennello con la copertina, scura, con questo sguardo intenso che sembra penetrare direttamente nel cuore del lettore.
La storia comincia con la notizia della morte di suo padre e poi dispiega la natura conflittuale del vostro rapporto. Durante la stesura di questo testo ha recuperato una visione più conciliante, non solo per ciò che riguarda il rapporto padre-figlio, ma anche la relazione tra i valori di una certa tradizione (apparentemente immobile) e il dinamismo occidentale?
Attenzione, non volevo scrivere un’autobiografia. Certo, ho tratto elementi dalla mia vita personale, ma anche di quella di amici, cugini, conoscente. Poi i nomi sono cambiati, gli eventi non sono completamente fedeli alla realtà. Direi che si tratta più di un'autofiction che di un’autobiografia vera e propria. Quindi il narratore si oppone a suo padre, non solo perché è giovane, diciamo adolescente, ambizioso e si trova davanti un papà tradizionalista; ma anche perché fa di suo padre il simbolo per eccellenza di ciò che ostacola le sue ambizioni: il governo, il regime, la pubblica amministrazione. È un po’ questo che descrivo nel romanzo. Il narratore, da bambino, si scontra col padre perché trova i suoi sforzi insufficienti, trova che lui non abbia fatto abbastanza nella sua vita, che sia stato troppo pavido e timoroso. Mentre lui, il giovane, vuole radere al suolo tutto il modo prima di ricostruirlo. Solo che, verso la fine, anche grazie ad una maturità acquisita nel corso degli anni passati all’estero, il narratore fa per così dire marcia indietro, rimpiange di non essere mai andato d’accordo con il padre. Il cambio di prospettiva lo porta anche a rivalutare la tradizione. Non è un caso che, a un certo punto, egli preferisca alle relazioni “miste” quelle con una donna del proprio paese. Quindi si, c’è una rivalutazione della propria eredità culturale, dei valori tradizionali. Però non direi che questa eredità viene messa in contrapposizione con la “Weltanschauung” occidentale. Certo, ho la mia idea personale sulle differenze fra valori “africani” e quelli “occidentali”, però non ne parlo nel libro.
Nell'epoca della comunicazione liofilizzata ed istantanea, scrivere un libro è oggi quasi un gesto sovversivo. Che cosa si prefigge con questa scelta?
È vero, siamo nell’epoca del cosiddetto “presentismo”, tutto è effimero e si limita al presente, al sentire qua ed ora. Però direi che è proprio questa la sfida: comporre un testo più lungo e articolato, come quello di un libro, significa contrastare la scrittura spontanea e istantanea che pratichiamo sui social. I libri non sono peraltro passati di moda, pensiamo per esempio al successo mondiale di personaggi come Harry Potter, che conquistano milioni di lettori. Vorrei anche sottolineare una cosa. Ciò che scriviamo sui social non dura più di un paio di giorni, è evanescente. Un libro può durare molto di più, perché va in profondità, consente di svolgere argomentazioni complesse.
Adesso lei risiede in Italia da più di dieci anni. Come si vede in futuro?
Lo confesso, sono molto ambizioso (ride). Vorrei diventare un grande scrittore e filosofo: il mio modello è Sartre. Poi vorrei anche insegnare, girare il mondo per insegnare.