È tempo di decrescita: la risposta felice ad una crescita infelice
La tecnocratizzazione della società è un fenomeno che ha seguito progressivamente l’onda anomala della capitalizzazione dell’economia, a partire dalla rivoluzione industriale fino ai giorni nostri. La legge del capitale si è imposta soverchiando i tentativi di concepire l’economia come qualcosa di diverso dal mero scambio di beni e servizi e la caduta dell’ex blocco sovietico è li a testimoniare tout court il fiato corto delle economie pianificate. Il trionfo del capitalismo ha finito per convincerci della naturalezza, prima che della necessità, di una crescita illimitata.
L’esistenza di un limite è, allo stesso tempo, causa e soluzione di una crisi che investe, oramai in maniera strutturale, la nostra società e che trova nella deriva finanziaria dell'economica capitalistica una delle sue manifestazione più drammatiche. Nella sua opera magistrale, Entropia, l’economista americano Jeremy Rifkin ci mette in guardia dall’illusorietà della crescita illimitata, rammentandoci come anche il sistema economico debba fare i conti con le leggi fisiche della termodinamica. Rifkin sostiene che, in un mondo dominato dalla tecnologia, i costi economici, energetici ed ambientali pagati per infrastrutturare la nostra civiltà siano molto più alti dei benefici ottenibili. La rete stradale e ferroviaria americana, ricorda l’economista, è oggi una delle più disastrate tra i Paesi economicamente avanzati, poiché il relativo gigantismo ne ha reso insostenibili i costi di manutenzione, alimentando cosi l’indebitamento istituzionale. Un'economia fondata sul debito è, dunque, un economia basata sul consumo non sostenibile di risorse, poiché evidente è lo squilibrio tra la soddisfazione dei bisogni della generazione presente ed il sostanziale disinteresse per il depauperamento economico ed ambientale lasciato in eredità alle generazioni future. Eppure l’idea dell’illimitatezza come origine di ogni male è ben presente nella cultura occidentale, almeno fino a XV secolo. Emblematico è il mito greco di Tantalo, condannato a soddisfare perennemente la sua fame e la sua sete senza riuscirvi, chiaro esempio della consapevolezza che gli antichi avevano di quello che Hegel definisce “il cattivo infinito”. La stessa dottrina cristiana riconosce nella dismisura il male assoluto, come ci ricorda splendidamente Dante nel suo Inferno, popolato di dannati a cui vengono inflitte punizioni ad infinitum. Da Cartesio in poi, la stima nella scienza ha modificato sensibilmente i rapporti di forza tra uomo e natura; la fiducia nella tecnica è arrivata al culmine con la nascita del pensiero illuministico dove, non a caso, affonda le sue radici la scienza economica moderna. La Ricchezza delle Nazioni, pubblicato da Adam Smith nel 1776, consacra cosi la teoria del libero mercato come la via da percorrere per garantire il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli. La divisione del lavoro ed il libero scambio vengono definiti i capisaldi di quello che diventerà poi il capitalismo moderno. Questa visione positiva della realizzazione di una compiuta economia di mercato era giustificata dalla esigenza di affrancarsi da condizioni diffuse di povertà. Il protocapitalisimo di Smith non aveva ancora percezione dei limiti fisici e delle degenerazioni ai cui si sarebbe giunti in età moderna. Oggi che il disegno di un mercato globale è finalmente compiuto, cominciamo a fare i conti con quello che, non a torto, qualcuno associa ad un vero proprio totalitarismo. L'homo sapiens è involuto ad homo oeconomicus al punto tale da non riuscire più a concepire la realtà al di fuori delle regole del mercato.
La lobotomizzazione della nostra società è stata portata a termine da una sistematica opera di indottrinamento, compiuta anche attraverso quelle istituzioni che avrebbero dovuto tutelare il libero pensiero, in primis scuola pubblica ed università. Le istituzioni, intrise della dottrina capitalistica, paiono incapaci a concepire soluzioni alla crisi se non attingendo alla dottrina stessa. È cosi che la coscienza collettiva è stato progressivamente ammorbidita dalla creazione di un benessere illusorio, fondato spesso sul consumo di beni e servizi del tutto superflui, ma facilmente accessibili. Un'economia “low cost” ha favorito il diffondersi di un'etica del avere a scapito di un etica dell'essere. Oggi, più che mai, è radicata in ognuno di noi l’attitudine all’illimitatezza, che si somatizza in comportamenti edonistici, tesi alla ricerca compulsiva di qualsiasi piacere materiale e che trova nel gesto del consumo il suo mantra. Il mercato globalizzato dirige, cosi, un processo sistematico di depauperamento della diversità economica, sociale ed ambientale, già fortemente livellata dai regimi comunisti, che paiono paradossalmente aver spianato la strada all’ultra-liberismo economico. I fenomeni di inquinamento globale e locale e l'ampliamento delle disparità economiche e sociale suggellano, cosi, il disvalore creato dal superamento dei limiti fisici ed etici. Il progresso scientifico, che ha reso possibile il superamento dei limiti tecnologici in età moderna, ha però concretamente evidenziato l'emergere di altri limiti, questa volta immanenti alla realtà del mondo; tali limiti non possono più essere superati, se non al prezzo dell'autodistruzione.
Prendere coscienza dell’esistenza di limiti fisici invalicabili può risultare traumatico per una società che è indissolubilmente legata a quella che il filosofo Fusaro definisce la “metafisica dell’infinito”. Tuttavia non sembra esserci un opzione migliore. Nell’immaginario collettivo la crescita è associata ad un incremento del Prodotto Interno Lordo sinonimo a, sua volta, di aumento dell’occupazione e di un più generico aumento del benessere collettivo. Questa aprioristica convinzione cela in realtà una preoccupante e generalizzata mistificazione della realtà, risultato di un processo che l’economista francese Serge Latouche definisce di colonizzazione dell’immaginario. Latouche riconosce nel marketing pubblicitario uno strumento potentissimo di sterilizzazione delle coscienze verso ciò che si può definire un bisogno indispensabile per ciascun individuo. La pubblicità crea i presupposti per trasformazione di un desiderio in un bisogno irrinunciabile, alimentando quel “cattivo infinto” alla base del consumismo. Quella dell’economista francese è una delle tante considerazioni che rientrano in quella che egli definisce la “teoria della decrescita”. Il termine decrescita è stato coniato dall’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen nei primi anni 70’, e sta all’aumento della povertà almeno quanto il termine crescita sta all’incremento del benessere. I sostenitori di questa corrente di pensiero ritengono che la soluzione definitiva alle crisi cicliche vada ricercata nella rinuncia alla crescita, secondo il significato che il capitalismo moderno attribuisce a questo termine. In un mondo in cui anche un disastro naturale come un’inondazione contribuisce all’incremento del PIL (!), essi mettono in luce gli aspetti disumanizzanti dell’economia di mercato ed un definitivo fallimento della stessa nel creare un benessere diffuso e duraturo, auspicandone cosi un definitivo superamento. L’aspetto più interessante di questa teoria è sicuramente quella di riproporre come strumentale il mercato ed i suoi meccanismi, rispetto al raggiungimento di un benessere diffuso. Riattribuendo all’uomo la sua centralità ma, allo stesso tempo, ristabilendo l’equilibrio ecologico con la natura, l’economia della decrescita ambisce cosi a tornare alle origini di quella che Aristotele, nella sua Politica, definiva la ricchezza naturale, che procaccia i beni necessari per vivere bene e a cui è necessario porre un limite per essere considerata moralmente legittima.
Alcuni segnali sembrano mostrare un inversione di tendenza. Lo psicologo Martin Seligman nel suo Felicità Autentica parla di una transazione da un'economia del denaro ad una della soddisfazione. A sostegno della sua tesi egli registra negli Stati Uniti un significativo aumento di individui disposti ad abbandonare lavori remunerativi per mansioni più modeste e tradizionali, rinunciando al denaro in cambio di una maggiore qualità del proprio tempo.
Prendere coscienza del patrimonio di tecnologie di cui disponiamo e valutarne l'utilità ai fini di vero benessere per gli individui è, invece, una delle questioni centrali nella teoria della decrescita. Diventare una società più umana e meno tecnocratica è la sfida paradossale che i popoli oggi deve affrontare. Non esistono ricette generali da seguire. Ogni comunità può ed ha il dovere di trovare la sua strada verso l'autosostentamento, sempre nella consapevolezza che si debba rimanere al di qua dei limiti che la natura ha tracciato.