Comunicare (bene) non basta
Come si possono contrastare efficacemente i nazionalismi, i sovranismi, i populismi? Come si può favorire l'affermazione di un sentimento di “cittadinanza europea”? Come si diventa “cittadini europei”?
Sono alcune delle domande poste dai e ai relatori dei recenti incontri bolzanini di Euromediterranea 2019. Rispondendo, in diversi hanno fatto riferimento alla necessità di un'informazione più accurata, precisa e diciamo pure seria: è evidente infatti che vi sono molti più miti che verità nella discussione pubblica che riguarda l'Europa e le sue politiche. In Italia poi, più che in altri paesi l'informazione da Bruxelles e Strasburgo viene troppo spesso piegata o addirittura distorta dai condizionamenti della politica nazionale. Si diventa “cittadini europei”, è stato detto, acquisendo consapevolezza della complessità dei problemi e della loro dimensione sovranazionale. In tutti i paesi dell'Unione dunque coloro che credono nella prospettiva europea cercano di favorire questa consapevolezza lavorando sull'informazione e la comunicazione. Un'impresa scoraggiante negli anni della “death of truth”, come li definisce la premio Pulitzer Michiko Kakutani, e delle fake news. Però scorciatoie non ce ne sono. Solo se grazie a un adeguato livello di informazione realizzeremo che le questioni del nostro tempo – ambientale, migratoria, economica, sociale – sono intimamente connesse e superano i confini degli stati e delle nazioni, saremo in grado di superare il nazionalismo, sviluppare politiche efficaci e incisive, evitare conflitti.
Come si possono contrastare efficacemente i nazionalismi, i sovranismi, i populismi? Come si diventa “cittadini europei”?
E infatti a questo mirano i materiali pubblicati in occasione di questo appuntamento, compreso il programma per le elezioni europee del 1994 scritto da Alexander Langer, che già allora individuava con chiarezza le questioni ambientale, migratoria, sociale come le sfide del presente, denunciava i pericoli dei nazionalismi e dei localismi, indicava con molta forza persuasiva la prospettiva di un'Europa “sostenibile e solidale”, “unita e democratica”, “operatrice di pace”, “fraterna, sorella del mondo intero”.
Scorciatoie non ce ne sono. Solo se grazie a un adeguato livello di informazione realizzeremo che le questioni del nostro tempo - ambientale, migratoria, economica, sociale - sono intimamente connesse e superano i confini degli stati e delle nazioni, saremo in grado di superare il nazionalismo
La partita decisiva però, a mio parere, non si gioca sul piano dell'informazione e della comunicazione. E questo per il semplice motivo che la maggioranza delle opinioni pubbliche dei diversi paesi non legge e non segue chi si occupa in modo serio dei vari dossier. Televisioni, radio, giornali, libri e soprattutto i social media influenzano l'opinione pubblica; ma molto di più lo fa la condizione materiale e concreta vissuta dalle persone. Se negli ultimi decenni quote significative di opinione pubblica si identificano con posizioni nazionaliste, ciò non avviene, a mio parere, perché i mezzi di comunicazione danno più spazio ai sovranisti o perché i social media favoriscono le fake news: in questo, piuttosto, i media fanno da cassa di risonanza di mutamenti già avvenuti. È che le condizioni di vita sono diventate più difficili e le prospettive poco favorevoli: il lavoro si fa precario, non dà più sicurezza, protezione sociale, possibilità di pianificare il futuro; interi settori produttivi chiudono, altri vengono delocalizzati, in altri ancora i salari crollano per la concorrenza di mano d'opera straniera, spesso ingaggiata in nero. È in questo contesto che riemerge, nonostante tutti i moniti, il nazionalismo come risposta facilmente comprensibile anche se realisticamente disastrosa.
La partita decisiva non si gioca sul piano dell’informazione e della comunicazione. Fino a quando esisteranno stati diversi, saranno disuguali anche le condizioni per i cittadini di ognuno di essi
La rinascita dei nazionalismi è favorita dal fatto che, da almeno due decenni, il processo di integrazione europea sembra essersi inceppato: anche questo è stato detto. Gli stati hanno ceduto all'Unione Europea importanti fette di sovranità, ad iniziare dalla politica monetaria. Ma in altri settori decisivi, come la politica estera e quella migratoria, l'Unione non è affatto un'unione. E anzi, quando ci sono da compiere scelte difficili, molto spesso i governi, compresi quelli “europeisti”, si trincerano dietro gli “interessi nazionali”. Anche se la maggioranza delle leggi approvate dai parlamenti dei vari paesi sono in attuazione di direttive europee, anche se esiste una Corte di giustizia europea che vigila sull'applicazione del diritto comunitario, la dimensione prevalente percepita dai cittadini nel loro quotidiano resta quella statual-nazionale. Non è solo una questione di lingue e culture; è che da stato a stato sono diversi gli ordinamenti istituzionali, i sistemi amministrativi, elettorali, scolastici, formativi, fiscali, previdenziali, sanitari, giudiziari, le relazioni industriali e sindacali e molto altro. In questo senso a me non sembra sbagliato affermare che fino a quando esisteranno stati diversi, saranno disuguali anche le condizioni per i cittadini di ognuno di essi.
Ecco, a parte la necessità di un'informazione più seria ed efficace, la spinta decisiva verso l'affermazione di una “cittadinanza europea” deve venire dagli stati stessi, se è vero che, a partire dagli anni '50, diedero vita al progetto comunitario perché solo esso avrebbe potuto garantire al continente pace, libertà e benessere. Meno stato, più Europa non è solo uno slogan; significa uguali diritti e doveri, regole e procedure per tutti i cittadini dell'Unione. Oltre a cedere ulteriori quote di sovranità, gli stati sono disposti a adottare modelli che traducono in pratica l'appartenenza di tutti noi alla medesima comunità? Un solo esempio: sono disposti e capaci di riportare sotto controllo e uniformare la burocrazia per dare, almeno in questo, uguali chances all'imprenditore greco, spagnolo, danese o che altro? Se questa fosse la reale condizione per tutti noi, la “cittadinanza europea” troverebbe, io credo, molto più consenso.
Gli stati nazionali e i loro ordinamenti sono il prodotto della storia. La questione è se sapremo governare questo cambiamento o se sarà uno shock a costringerci a costruire un nuovo assetto
Gli stati nazionali e i loro ordinamenti non sono entità trascendentali, ma il prodotto della storia, dell'economia, della cultura, della politica. Un marxista direbbe che la forma-stato è nata in corrispondenza allo sviluppo del sistema di produzione e non come risultato di una qualche “missione”; e che la forza trainante dell'economia produrrà altri assetti istituzionali e geopolitici. Ma anche a non pensarla così, è molto verosimile che tra un secolo l'Italia, la Germania, la Francia e così probabilmente la maggior parte degli stati non esisterà nella forma che oggi conosciamo. La questione è se sapremo governare questo cambiamento o se sarà uno shock a costringerci a costruire un nuovo assetto.