Unibz: incontro con Agnes Heller e Zygmunt Bauman
Il 21 marzo si terrà nell'aula magna della Libera Università di Bolzano una delle lezioni più importanti dell'anno. All'interno della rassegna "Quale bellezza salverà il mondo?" organizzata da Unibz e Centro Pace di Bolzano, saranno ospitati Agnes Heller e Zygmunt Bauman.
Agnes Heller, nata 85 anni fa in Ungheria, filosofa allieva di György Lukács, si è occupata diffusamente di bellezza, a cui ha dedicato il saggio "La bellezza della persona buona" edito nel 2009 da Diabasis. Di ritorno a Bolzano dopo meno di tre anni, proverà a indicare una direzione possibile per ristabilire una connessione tra il concetto di moralità e quello di bellezza.
A farle compagnia, il sociologo Zygmunt Bauman, 88 anni, polacco di origine ed inglese di adozione, è considerato uno dei maggiori intellettuali viventi. Quest'ultimo, intervistato per l'occasione dal Corriere Alto Adige (5/3/2014) ha ricordato come la storia dell'umanità possa essere raccontata sia come la storia della ricerca della bellezza, sia come storia delle sofferenze e umiliazioni umane. Come ha spiegato lui stesso: "Con la frase "C'è la bellezza e ci sono gli umiliati. Qualunque difficoltà presenti l'impresa, non vorrei mai essere infedele né ai secondi né alla prima" Albert Camus ci ha ricordato che le due storie sono intrecciate e non possono essere raccontate separatamente. Questo monito è sempre attuale ma risulta particolarmente urgente e pressante in un'epoca di interdipendenza globale, quando qualunque cosa si faccia o si rinunci a fare in una parte del pianeta potrebbe avere un impatto enorme sulle condizioni di vita e le prospettive di tutto il resto del mondo. Oggi la tecnologia ci consente di agire su enormi distanze di spazio e di tempo, mentre la nostra immaginazione morale è progredita a stento dai tempi di Adamo ed Eva".
Appuntamento, quindi, alle ore 18 del 21 marzo presso l'Aula Magna della Libera Università di Bolzano. Ingresso libero. E' previsto un servizio di traduzione simultanea.
Per l'occasione ripubblichiamo un'intervista rilasciata da Agnes Heller al Festivaletteratura di Mantova del 2010 (video) e, visto il noto interesse per il tema dell'identità di chi abita queste terre, anche un'intervista, quasi inedita, rilasciata sul tema da Zygmunt Bauman al quadrimestrale "Altrove" nel maggio del 2005.
Zygmunt Bauman, è uno dei più importanti intellettuali del mondo. Professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia si è occupato lungamente del tema dell’identità. In una sua precedente pubblicazione ha definito l’identità come “un vestito che si usa finchè serve” perché “sessuale o politica, religiosa o nazionale è precaria come tutto nella vita” come prima cosa gli abbiamo chiesto quale è oggi la sua idea di identità.
L’idea d’identità, ogni volta che è emersa, è sempre stata divisa da una contraddizione interna: suggeriva una specie di distinzione che veniva soffocata dal processo della sua affermazione, e si dirigeva verso un’unicità che poteva essere costruita solo attraverso la condivisione delle differenze. Può servire allo scopo dell’emancipazione individuale come a quello dell’appartenenza ad una collettività che rifiuta le idiosincrasie individuali. Ma la ricerca dell’identità ha luogo sempre sotto fuochi opposti e procede sotto la pressione di due forze ugualmente discordanti. C’è un doppio legame nel quale ciascuna dichiarata e/o ricercata identità è intrappolata, e dal quale può solo cercare in vano di liberarsi. Naviga, infatti, tra gli estremi dell’inflessibile individualità e quelli dell’appartenenza totale; il primo estremo non è raggiungibile, mentre il secondo, come un buco nero, risucchia, ingoia e fa sparire qualsiasi cosa galleggi vicino ad esso. Ogni qual volta la si scegliesse come destinazione di un viaggio, l’identità spingerebbe inevitabilmente in entrambe le direzioni. Per questa ragione, l’identità annuncia pericoli potenzialmente rischiosi sia per l’individualità che la collettività, anche se entrambe si avvalgono di essa come arma di affermazione personale. La strada per l’identità è un campo di battaglia pieno di lotte interminabili tra il desiderio di libertà e il bisogno di sicurezza, tra la paura della solitudine e il terrore dell’incapacità. Per questa ragione «le guerre d’identità» non provano nulla e con ogni probabilità, sono impossibili da vincere.
Questa lotta tra libertà è sicurezza è da sempre al centro dei suoi testi, può spiegarci come rientra nel discorso sull’identità?
La ricerca dei valori di libertà e sicurezza, entrambi largamente desiderati in quanto indispensabili per una vita dignitosa e felice, converge sull’attuale discorso d’identità. Però, mentre da una parte non è possibile concepire alcuna vita dignitosa e umanamente gratificante senza una combinazione di libertà e sicurezza, un equilibrio completamente appagante tra le due è raramente raggiungibile. La mancanza di sicurezza rimbalza nella paura di «troppa libertà», che rasenta lo stress dell’insicurezza e l’agorafobia; mentre la mancanza di libertà è sentita come un ostacolo alla sicurezza (chiamata da coloro che ne soffrono «dipendenza»). Quando manca la sicurezza, difficilmente la libertà può essere esercitata. Senza trincee in seconda linea, poche persone, salvo qualche audace avventuroso, avrebbero abbastanza coraggio per affrontare i rischi di un futuro sconosciuto e insicuro. D’altra parte, senza una rete di salvataggio, la maggior parte della gente si rifiuterebbe di camminare sulla corda, e non sarebbe felice di essere obbligata a farlo. Quando invece è la libertà a mancare, la sicurezza sembra una vera e propria schiavitù o prigione, anche se, per alcuni, vivere senza libertà per lungo tempo, può uccidere definitivamente il desiderio di libertà fino a fare apparire la condizione esistente come l’unico habitat vivibile. Nella versione dell’Odissea di Lion Feuchtwanger, infatti, i marinai trasformati in maiali da Circe si rifiutano di riprendere la forma di uomini quando ne hanno l’opportunità: trovandosi a loro agio e senza preoccupazioni grazie al cibo - che anche se scarso è garantito e incondizionato - e grazie all’alloggio - sporco e puzzolente, ma gratuito - questi non vogliono affatto provare un’alternativa che, anche se più eccitante, è instabile e piena di rischi. Questa esperienza è rivissuta all’infinito (più recentemente dai soldati del corpo militare iracheno sommariamente sollevati dai loro compiti giornalieri e conseguentemente anche dalla riscossione di salario), con o senza l’interferenza delle streghe, appena le vecchie routine, per quanto noiose e oppressive, sono interrotte.
Ogni aumento di libertà può essere considerato come un calo di sicurezza, e viceversa. Entrambe le versioni sono giustificate - e quale delle due sia scelta dipende da altri fattori, più che dall’eleganza degli argomenti avanzati per sostenerla. Ad ogni modo, è più facile che l’appoggio per un cambiamento sarebbe più grande se la scelta fosse un esercizio fatto in libertà; l’ampliamento di prospettive che l’incremento di libertà può portare, è raramente visto come un affare se quello stesso incremento risulta in un calo di libertà. Numerose ricerche hanno confermato questa regola: se le persone sono contro i cambiamenti nelle condizioni della loro vita o nelle regole del gioco della vita, lo fanno non tanto perché non amano le nuove realtà emergenti, ma per il modo in cui sono state introdotte, cioè, senza chiedere il consenso della gente.
Sono in molti, ultimamente, ad occuparsi dell’argomento identità...
È vero. Gli intellettuali, cioè coloro che formano quel nucleo articolato e di auto-riflessione dell’emergente élite global-extraterritoriale, ne parlano con crescente liricità. Impegnati come sono a comporre, decomporre e ricomporre le loro identità, non possono che essere favorevolmente impressionati dalla facilità e dal costo relativamente basso con il quale è possibile fare questo lavoro ogni giorno. I sociologi tendono a chiamare questo processo «ibridizzazione» e i suoi praticanti «ibridi culturali». Liberi da legami locali e capaci di viaggiare con grande facilità attraverso i canali informatici, gli intellettuali si chiedono perché altri non seguano il loro esempio. Il fatto che «gli altri» non lo seguano, non è che un’ulteriore attrazione e ragione d’orgoglio per l’ibrido.
Cosa intende con il concetto di “ibridizzazione”?
In apparenza, l’ibridizzazione è basata sul mescolarsi, ma la sua funzione latente e forse cruciale, che la rende un modo esemplare e popolare di «vivere nel mondo», è la separazione. L’ibridizzazione divide il prodotto ibrido da ciascuno e da tutti, e da ogni grado di parentela monozigota. Nessuno dei gradi di affinità può dichiarare di avere diritto di proprietà esclusiva sul prodotto e nessun gruppo di affini può esercitare il pedante e nocivo controllo sull’ottemperanza agli standard. L’ibridizzazione è una dichiarazione di autonomia, che si spera sia seguita da azioni auto-regolate. Il fatto che «gli altri» siano rimasti indietro, bloccati nei loro genotipi monozigoti, fa accrescere la convinzione e sprona all’inseguimento delle azioni. L’immagine della «cultura ibrida» è una patina ideologica sulla raggiunta o dichiarata extraterritorialità. Si tratta essenzialmente della conquista e del mantenimento della libertà che permette di oltrepassare e uscire liberamente all’interno di un mondo intersecato da staccionate e diviso in regole territoriali fisse. Come nei territori extraterritoriali attraversati, e nei “nonluoghi” abitati dalla nuova elite globale, la cultura ibrida cerca la sua identità nel non appartenere: nella libertà di infrangere e ignorare le frontiere che legano i movimenti e le scelte della gente minore - «i locali». Gli ibridi culturali vogliono sentirsi a casa loro ovunque - questo, per essere vaccinati contro il germe malvagio della domesticità.
Quali sono le origini dell’“ibridizzazione”?
L’ibridizzazione non è che il sostituto delle antiche strategie di assimilazione, modificate per tenere conto delle diverse circostanze della «modernità liquida». È un tutt’uno con il «multiculturalismo». Gli ordini di genuina o suggerita superiorità/inferiorità, che una volta si pensava fossero strutturati in modo inequivocabile da un’indiscutibile logica del progresso, sono superati, mentre i nuovi ordini sono troppo fluidi ed effimeri perché possano cristallizzarsi in una forma riconoscibile che possa essere adottata come cornice di riferimento per la composizione di identità. Come risultato, l’identità è diventata un prodotto momentaneo, per la maggior parte formato da sforzi per localizzare e descrivere se stessi. L’ibridizzazione è un movimento che aspira ad un’identità costantemente «non-immobile», e «non-immobilizzabile». Nell’impossibilità, e nell’allontanamento dell’ostinato processo verso l’orizzonte, emerge un’identità definita solo dalla distinzione di se stessi rispetto gli altri.
Nonostante tutto questo, l’identità degli ibridi rimane irrimediabilmente dipendente da questi «altri», in quanto non ci sono dei modelli definiti da seguire o emulare. Non è che una «fabbrica» di ri-evoluzione e di riciclo, che vive sul credito e si ciba di cose prese in prestito. L’immagine della cultura ibrida è una patina ideologica sulla raggiunta o dichiarata extraterritorialità. Esente da regole di unità politiche circoscritte territorialmente, la cultura ibrida cerca la sua identità nel rendersi libera da quelle identità attribuite e inerti. Lo scopo è quello di sfidare e ignorare quei mercati culturali, etichette e infamie, che evitano e limitano i movimenti e le scelte di tutti quelli che vi sono ingabbiati: i locali. Questa nuova non-immobilizzazione di se stessi è chiamata, appunto da coloro che la praticano, con il nome di libertà. Si può però anche affermare che avere un’identità non fissa e «in attesa di nuovi sviluppi» non è uno stato di libertà, ma uno di incessante, e mai vittoriosa, guerra di liberazione: uno sforzo giornaliero per fare pulizia e dimenticare. La libertà dei cercatori d’identità è uguale a quella di un ciclista: la conseguenza della decisione di smettere di pedalare è la caduta, e per rimanere in sella si deve faticare. La necessità di continuare a faticare è un dilemma senza scelta, visto che l’alternativa è considerata inaccettabile. Passando da un episodio all’altro, guidati più dalla voglia di cancellare la storia passata che dal desiderio di disegnare la mappa del futuro, l’identità del protagonista è sempre fissata nel presente, e nega il significato duraturo delle fondamenta del futuro. L’unico nucleo dell’identità a cui una persona è sicura di poter sopravvivere e dal quale può emergere illesa dai continui cambiamenti, è quello dell’homo eligens - l’uomo che sceglie (ma non l’uomo che ha scelto!); un se stesso permanentemente impermanente, completamente incompleto, definitivamente indefinito - e autenticamente fasullo.
Sul mondo degli affari moderno e liquido, Richards Sennet ha scritto: «Aziende perfettamente competenti sono state svuotate e abbandonate, impiegati abili sono stati mandati alla deriva invece che premiati, semplicemente perché l’organizzazione doveva provare al mercato che è capace di cambiare». Rimpiazzate «aziende» con «identità», «abili impiegati» con «proprietà e soci», e «organizzazione» con «se stessi» - e avrete una descrizione affidabile del dilemma che definisce l’homo eligens.
Si tratta di identità funzionali al mercato?
L’homo eligens e i mercati vivono in perfetta simbiosi: non vedrebbero la luce di un altro giorno se non si nutrissero e si sostenessero a vicenda. Il mercato non sopravviverebbe se i clienti non volessero mai sbarazzarsi di niente; perché sopravviva, il mercato non deve desiderare l’impegno e la fedeltà dei clienti o una costante traiettoria che resista dall’essere distratta, ma solo l’impegno di comprare e così creare quelle traiettorie che conducono ai grandi magazzini. Il mercato accuserebbe un colpo mortale se le condizioni fossero garantite, se i progressi e le proprietà fossero al sicuro, se i progetti fossero finiti e il completamento delle missioni possibile. L’arte del marketing è focalizzata sul prevenire la chiusura delle alternative e la soddisfazione dei desideri.
Contrariamente alle apparenze e a dichiarazioni ufficiali, come pure a certi luoghi comuni, l’enfasi non cade sul far nascere nuovi desideri, ma nell’estinguere i vecchi (leggesi «quelli di un momento fa») in modo da liberare il campo per nuove esperienze di shopping. La prospettiva ideale del marketing è l’irrilevanza del desiderio nella condotta del potenziale cliente. Dopo tutto, i desideri hanno bisogno di una cura attenta e spesso costosa; quando sono completamente sviluppati, infatti, perdono una grande parte della loro flessibilità iniziale e sono buoni sono per usi specifici e in gran parte strettamente limitati. I desideri momentanei e gli sfizi, d’altra parte, hanno bisogno di poco, se non nessun, investimento.
Così, gli abitanti del mondo moderno e liquido vagano ossessivamente tra i negozi attraversando i corridoi dei grandi magazzini guidati dalla speranza di trovare un’etichetta identificativa e pre-confezionata necessaria a farli sentire aggiornati. Una corsa frenetica guidata anche dall’apprensione, perché queste etichette di orgoglio si trasformano rapidamente in etichette di vergogna.
La loro motivazione non si esaurisce mai; è sufficiente che i gestori dei grandi magazzini seguano il principio scoperto da George Perec, «fai sì che l’ultimo pezzo in vendita non combaci con il resto dei pezzi del puzzle, e che l’assemblaggio debba essere iniziato di nuovo dall’inizio e ripetuto all’infinito..». Fino a che le identità-puzzle sono disponibili solo in forma di prodotto e non si possono trovare in alcun posto eccetto che nei grandi magazzini, il futuro dei mercati è assicurato.
Tra etichette di identità e ibridizzazione c’è dialogo?
Il discorso attuale sull’identità gira precariamente verso tutte queste contraddizioni, ambiguità e trappole nascoste. Praticamente ogni proposta creata è cibo per alcuni e veleno per altri; e si trasforma da cibo a veleno e viceversa secondo i cambiamenti repentini ed imprevisti della situazione. In grandi linee, coloro che sperano di ottenere e mantenere la sicurezza esponendosi ai rischi e ai pericoli della scelta libera, tendono ad enfatizzare il valore di identità indeterminate, poco-definite, non-fisse, incomplete, aperte e, soprattutto, facili da rigettare o rivedere; mentre quelli che subiscono le guerre d’identità e che soffrono il peso di stereotipi forzati, tagliati fuori da scelte desiderate e troppo intimiditi dalla loro insicurezza per contemplare seriamente di sfidare le regole del gioco, scelgono l’identità come un diritto di nascita, come proprietà alienabile e un marchio indelebile. Il fatto che entrambi i protagonisti usino la capacità verbale per sottolineare i loro bisogni distinti, non garantisce necessariamente un dialogo significativo. Nonostante entrambi parlino di identità, tendono il più delle volte, a non capirsi. Se il primo per «identità» intende un passaporto per l’avventura, il secondo pensa alle difese contro gli avventurieri; se per il primo, l’identità è una tavola da surf, per il secondo, è una barriera di scogli. In nessuno dei due casi l’invocazione all’identità è fine a se stessa, ma le ragioni sono diverse. Sono radicate nelle pratiche umane, in quello che gli uomini fanno per difendersi e nei loro sforzi per sentirsi tali. Fino a quando queste pratiche rimarranno differenti, la semantica dell’identità rimarrà diversa. La realtà, come insisteva Karl Marx, ha bisogno di essere vista come «un’attività, una pratica umana e sensuale», visto che «la vita sociale è essenzialmente pratica».