Culture | Bilinguismo
Un amore
Foto: Marion Obkircher
Come figlia di una slovacca e di un altoatesino di madre lingua tedesca, cresciuta a Soprabolzano, l’italiano praticamente non era presente nella mia prima infanzia. In paese non ne avevo bisogno per comunicare con la gente: tutti parlavano il tedesco.
La prima volta mi imbattei nell’italiano nella prima elementare. Da allora in poi ci incontravamo circa quattro volte alla settimana per circa un’ora. Anche in estate quando la scuola non c’era ci vedemmo casualmente, per ordinare un gelato a Jesolo. Fin qui tutto bene, non c’era amore né odio tra di noi. Eravamo dei conoscenti.
Purtroppo, con il passare del tempo le cose si complicarono. Bambini piccoli problemi piccoli, bambini grandi problemi grandi. I guai cominciarono quando iniziai a frequentare le medie dei Francescani a Bolzano. A differenza di me, i bambini di Bolzano parlavano bene l’italiano e presto arrivò il primo voto insufficiente.
Il nemico: l’italiano
Le lezioni d'italiano per me equivalsero all’inferno. Le verifiche di grammatica erano quasi sempre insufficienti, i temi in classe appena sufficienti. Ma il vero incubo erano le interrogazioni orali. Quando dicevo qualcosa mi vergognavo perché sapevo già che era falso. Più spesso però restavo muta come un pesce perché mi mancavano le parole per esprimermi. Io che ero abituata a essere considerata una brava studentessa non reggevo tutte queste “umiliazioni “. Per combattere il senso della insufficienza ricorrevo a una strategia ben nota: creare un nemico e odiarlo con tutta la mia forza. Nel mio caso il nemico era l’italiano. Non odiavo solo le lezioni e il professore d’italiano. Il mio disprezzo si estese anche sui ragazzi italiani che nei fine settimana passeggiavano sull’Altopiano di Renon e le famiglie, a mio parere troppo rumorosi, nei ristoranti. La mia mente iniziò a distinguere fra altoatesini tedeschi e altoatesini italiani. Noi, i ragazzi del paese, usavamo sempre più frequentemente la parola “walsch” per disprezzare tutto ciò che aveva origini italiane e non ci piaceva. Insomma, stavo diventando quasi una piccola patriota. Senza dubbio, in questo periodo mi piaceva di più mettermi il Dirndl e andare a ballare e chiacchierare con i ragazzi alle feste paesane invece di recuperare i miei voti insufficienti.
Se tu mi tratti bene, anch’io ti tratto bene
C’era solo un problema: tutto questo odio e disprezzo per l’italiano non risolveva il problema dei brutti voti. Mia mamma mi mandò a prendere ripetizioni. Io andavo svogliatamente, però non c’era niente da fare. Mi ricordo bene quando lessi insieme alla maestra “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti e non riuscivo a cogliere il senso. Quanto era imbarazzante spiegare alla professoressa che non avevo capito niente! Dall’ altro lato ero stufa di prendere insufficienze, per questo mi impegnavo e collaboravo. A poco a poco i miei impegni portarono frutti. I miei voti migliorarono, e durante le interrogazioni orali riuscii a esprimermi almeno in un italiano stentato. Quello che nacque tra di noi nei mesi successivi non era proprio simpatia, bensì rispetto per l’altro. Fu come se l’italiano mi dicesse: se tu mi tratti bene, anch’io ti tratto bene.
Grazie alla mia professoressa d’italiano della terza superiore, che fece da mediatrice, l’italiano e io diventammo amici. Ormai non si facevano più esercizi di grammatica a scuola, ma si parlava di cose ben più interessanti: Dante per esempio. La Divina Commedia mi sembrò un racconto fantastico. I tre regni dell’al di là erano gli universi paralleli e Dante e le sue guide i viaggiatori attraverso il tempo e lo spazio. Anche Petrarca mi era molto simpatico, soprattutto perché aveva sofferto di un dissidio interiore come un po’ tutti noi, no?
Una bella storia estiva
Come succede spesso, l’amicizia si trasformò in un amore ardente quando a diciassette partii per la Toscana. Lavorai due mesi in un agriturismo e fu così che l’italiano prese la forma di persone. Feci conoscenza con due cuoche calabresi che all’inizio si lamentarono perché ero vegetariana. Tuttavia, diventarono le mie mamme e mi regalavano continuamente fette di crostata e biscottini. La mia compagna di casa presto diventò la sorella più grande che non avevo mai avuto. I miei colleghi di lavoro dopo una settimana erano persone delle quali mi potevo fidare a occhi chiusi. Come se tutto questo non bastasse incontrai anche un ragazzo che diventò il mio amore estivo. Non mi affezionai solo a lui ma anche al caffè liscio, alla pasta ogni giorno, alle città di tufo e alle lunghe serate nei bar a bere il vino e a cantare classici italiani. Quando a settembre ritornai in Alto Adige, piansi per una settimana intera. Mi mancava la mia famiglia italiana, gente straniera che mi aveva accolto così cordialmente come non mi era mai capitato.
Foscolo il consolatore
Quella volta le poesie romantiche di Ugo Foscolo e il romanzo storico “I promessi sposi “ di Alessandro Manzoni offrirono conforto. Anche gli enigmatici racconti e romanzi dello scrittore belluno-milanese Dino Buzzatti mi aiutarono a colmare il tempo fino alla mia ripartenza per la Toscana. Fu il suo romanzo “Un amore“ che mi ispirò il titolo di questo testo.
Oggi, quando mi imbatto in qualcuno che dice “walsch” assumendo un tono disprezzativo, come avevo fatto anch'io, provo pena per questa persona, perché si lascia fuggire l’opportunità di allargare il suo orizzonte. Accogliere la cultura e la lingua italiana nella mia vita non significava rinunciare alle cose che, almeno io, associo di più alla lingua tedesca: i Dirndl, il Kirchtig, i Strauben e i Kasknedel mi piacciono ancora da morire. Soltanto che adesso ho una visione più completa del Sudtirolo e forse anche di me stessa. Ho imparato che non si deve parlare perfettamente l’italiano o avere dei parenti italiani per sentirsi italiana. È più questione di mentalità e di cuore, che di origine. Lo stesso vale per il sudtirolese e per qualsiasi altra nazionalità ed etnia.
Please login to write a comment!
"...altoatesina di
"...altoatesina di madrelingua tedesca..". Das drückt bereits die gesamte Weltanschuung aus. Identitätsverleugnung pur. Ich für mich möchte nicht so enden wie die Kurden in der Türkei, welche Bergtürken genannt werden (müssen). Sind wir wirklich Hochetscher geworden? Es ist schon tragisch genug, von anderen so genannt zu werden, aber sich selbst ideologisch so vereinnahmen zu lassen? Traurig wenn Kulturen sterben aufgrund schleichenden nationaler Assimilierung. Und dies gilt weltweit. Noch trauriger, wenn die direkt Betroffenen das noch unterstützen.
Dear Quo vadis Südtirol,
Dear Quo vadis Südtirol,
mi permetta di osservare che il Suo commento mi pare esclusivamente polemico. La ragazza ha scritto un pezzo in italiano, evidentemente per dare più forza a quanto esprime nel racconto (che non è rinunciare alle sue radici), e il dettaglio di altoatesino di l.t. anziché sudtirolese le può essere semplicemente sfuggito. Si tratta comunque di una differenza lessicale inventata in decenni recenti, dove l'altoatesino è chi vive qui ma di origine italiana (si potrebbe discutere sui discendenti dei trentini già sudditi della monarchgia austriaca) e il sudtirolese l'abitante di lingua tedesca (originario, non il germanico trapiantato qui, che presumo resti sempre Bundesdeutscher).
Il Suo senso di appartenenza è così labile da sentirsi in pericolo per un racconto? Pensa che tramite questi dettagli lessicali verrà assimilato? In questa terra finora - nella storia - sono stati assimilati solo i ladini e non al gruppo linguistico italiano. Nemmeno una dittatura ha potuto assimilare i sudtirolesi, quindi ne sarei fiero e questo darebbe già risposta alle Sue domande retoriche. La parola "ideologisch" la scrive solo Lei ed è significativo: solo il Suo commento ha una radice ideologica e nessun fondamento concreto (per fortuna, direi, non è d'accordo?)
In reply to Dear Quo vadis Südtirol, by lino topo
@ Quo vadus: Gehaht's nou?
@ Quo vadus: Gehaht's nou?
"Non solo con le persone,
"Non solo con le persone, anche con le lingue si può avere una relazione."
Grundehrlicher und unprätenziöser Erlebnisbericht wie ein Weg zur persönlichen Beziehung zu einer zweiten Sprache laufen kann, Marion. Danke Dir dafür!
Wie aus einem einzigen Wort dieses Beitrags eine "selbstverleugnende Weltanschauung" konstruiert wird ist dabei gewiss nicht ein Problem Deines Beitrags oder des Wortes, sondern wohl ein Problem der Weltanschauung des Kommentators.
Darüber Schulter zuckend, wünsche ich Vielen, ihre persönliche Beziehung zu einer weiteren Sprache zu finden - wie es Dir zweifelsfrei gelungen ist.
Questo articolo trasmette
Questo articolo trasmette empatia, riesce a sciogliere un tema spinoso con semplicità e lancia un messaggio chiaro e diretto: mettersi alla prova con esperienze in contesti diversi dalla propria Heimat, qualsiasi essa sia, è la chiave della comprensione.
A livello europeo l’importanza della mobilità è nota sin dall’istituzione del programma Erasmus, che dal 1987 apre gli orizzonti di generazioni europee attraverso collaborazione e inclusione.
Mobilità con o senza un programma istituzionale alle spalle, per studio o per lavoro: ciò che conta è spostarsi oltre i confini di casa, per acquisire la capacità di osservare da altre prospettive e comprendersi.
La conclusione dell’autrice pare universale:
“Ho imparato che non si deve parlare perfettamente [inserire lingua X] o avere dei parenti [inserire nazionalità X] per sentirsi [inserire identitá X]. È più questione di mentalità e di cuore, che di origine. Lo stesso vale per il [inserire identità Y] e per qualsiasi altra nazionalità ed etnia.”
Una società moderna è infatti un melting pot di individui con origini diverse, legati da una mentalità condivisa.