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Il tribunale della storia

Francesca Brunet è la nuova Presidente dell'associazione “Storia e regione”. Un dialogo sul ruolo di tale istituzione e sul senso della ricerca storica che vi si pratica.
Francesca Brunet
Foto: Salto.bz

Salto.bz: Francesca Brunet, da metà febbraio lei è Presidente dell'associazione “Geschichte und Region/Storia e Regione”, ci ricorda di cosa si tratta?

Francesca Brunet: Si tratta di un'associazione composta da studiosi e appassionati di storia, che si occupano a vario titolo di storia, non solo della nostra regione; l’associazione, oltre ad organizzare o co-organizzare varie iniziative culturali, pubblica una rivista bilingue, omonima, che ha come focus, appunto, la storia regionale, indagata con un approccio particolare.

Quale?

Lo spirito che muove la rivista, e più in generale l’associazione, è lo stesso con cui 30 anni fa essa è stata fondata. Diciamo che la principale linea guida del nostro lavoro è quella di fungere da piattaforma di scambio, da luogo di superamento delle barriere tra le diverse tradizioni, culture scientifiche e spazi linguistici che innervano una regione plurale e complessa come la nostra.

Gli sforzi dell’associazione sono volti al superamento della tradizionale storia regionale

Come si configura questo spirito in concreto, per esempio nella composizione di un numero della rivista?

Sul piano scientifico e metodologico, gli sforzi dell’associazione sono volti al superamento della tradizionale storia regionale; da un lato mettendo in discussione e ridefinendo di volta in volta il concetto stesso di regione (che vogliamo intendere come spazio “fluido”, definibile non solo in senso politico-amministrativo, ma anche sociale, linguistico, culturale…); dall’altro prestando particolare attenzione all’approccio comparativo. Questo lo si vede bene nella rivista, che esce due volte l'anno: ogni numero contiene una parte monografica, dedicata quindi ad un tema specifico, che viene indagato in vari ambiti regionali. Prendiamo ad esempio l’ultimo numero uscito, dedicato al tema “Studentische Gawalt/violenza studentesca” nella prima metà del Novecento, curato da Martin Göllnitz e Matteo Millan: vi sono saggi che trattano vari casi di studio, dai movimenti studenteschi macedoni a quelli trentini e triestini, passando per i casi delle università tedesche di Monaco e Rostock.

La vostra vocazione è specialistica?

Sì e no. È chiaro che chi si occupa di storia a livello professionale non può escludere un ampio ricorso a tecniche disciplinari di tipo specialistico, però il compito di uno storico è sempre anche quello di indirizzarsi ad un pubblico quanto più vasto; è per questo che lo sforzo divulgativo, per Geschichte und Region/Storia e regione è fondamentale tanto quanto la ricerca scientifica.

Oggi però anche il pubblico dei non specialisti ha la possibilità di accedere ad una grandissima mole di informazioni, utilizzando per esempio le nuove tecnologie. Trova che questo abbia cambiato in profondità la sostanza della ricerca storica?

La mia impressione è che l’accesso alle informazioni via internet non abbia davvero aperto le porte a qualcosa di “sconosciuto” o prima inaccessibile, almeno per quanto riguarda una materia come la storia. Archivi e biblioteche sono sempre stati pubblicamente accessibili. Certo si può dire che oggi come oggi è più facile accedere ad un articolo, all’inventario di un fondo archivistico, alle fonti giornalistiche e così via, ma non mi pare che la sostanza cambi molto.

Il concetto di complessità è inerente al nucleo della ricerca storica, che ha il compito di rispettare l'ordito di eventi quasi mai spiegabili ricorrendo alle semplificazioni delle quali è purtroppo avida certa opinione pubblica

Nonostante questa maggiore facilità, però, la tentazione ad accontentarsi di leggere le cose con dei punti di vista semplificanti non pare ridursi...

Prima, di sfuggita, ho ricordato che il nostro è un territorio complesso. Ma lo stesso concetto di complessità è inerente al nucleo della ricerca storica, che ha il compito di rispettare l'ordito di eventi quasi mai spiegabili ricorrendo alle semplificazioni delle quali è purtroppo avida certa opinione pubblica. Prendiamo ad esempio una figura come quella di Cesare Battisti, così centrale nella narrazione identitaria del Trentino e del Tirolo storico. Qui troveremo sempre persone che, a seconda della loro sensibilità politica, vorranno farne un caso esemplare di eroismo, oppure lo indicheranno come il prototipo del traditore. Ma la realtà, per l'appunto, è molto più complessa, ingarbugliata, e va dipanata rispettandone anche le contraddizioni. Però è vero, come dice lei, oggi verifichiamo anche una tendenza a privilegiare immagini nette, prive di sfumature; e il facile accesso alle informazioni paradossalmente alimenta questa tendenza perché chiunque sostenga un’opinione, anche fondata su pregiudizi superficiali o su false informazioni, può facilmente trovare in rete riscontri che la confermano. Anche i terrapiattisti, per citare un caso eclatante, navigano in internet e trovano a colpo sicuro i loro siti di riferimento.

C'è chi ha detto che davanti a una crisi come quella che stiamo vivendo (anche noi siamo costretti a fare questa intervista al telefono, per evitare gli spostamenti) il sapere specialistico tornerà in auge. Insomma, un effetto collaterale positivo dell'epidemia di coronavirus.

È un punto di vista interessante, forse però più attinente alla rivalutazione del sapere di discipline scientifiche per le quali l'oggettività è più difficilmente negabile, perché comunque dipendente da una struttura gerarchica che dispone l'individuazione più stretta di tali oggetti. Per quanto riguarda la storia mi mantengo su una posizione più prudente.

Parliamo allora del rapporto tra storia e utilizzo politico della storia, un tema sempre molto attuale qui in Alto Adige/Südtirol.

Valgono le medesime considerazioni alle quali accennavo quando ho parlato di Cesare Battisti. Anche la politica, che dipende dall'opinione pubblica, dovendo intercettarne gli umori, tende spesso alla semplificazione della storia. Ma se la storia ha un ruolo, ripeto, è proprio quello di opporsi alle semplificazioni, incoraggiando un tipo di approfondimento che vuole arricchire, e quindi al limite anche contestare i punti di vista di partenza. Per dirla con una battuta: pur avendo un occhio puntato sullo specchietto retrovisore, cioè al passato in cui sono avvenuti determinati fatti, l'altro occhio deve anche guardare avanti, dove si aprono nuove prospettive d'indagine.

Fino alla metà del secolo chi veniva accusato, nei territori austriaci, era all'oscuro del procedimento giudiziario che veniva imbastito contro di lui, e non poteva neppure ricorrere ad un avvocato difensore

Qual è il focus della sua ricerca, e che percorso ha seguito per arrivare ad individuarlo?

A Venezia, dove mi sono laureata alla specialistica con il professor Claudio Povolo, ho cominciato ad interessarmi alla storia delle istituzioni giudiziarie, del diritto penale e della criminalità, e soprattutto all'utilizzo delle fonti giudiziarie e di polizia come fonti per la storia sociale. La mia tesi era sulla Corte d'Assise di Venezia tra il 1871 e il 1876, ossia nel primo quinquennio di applicazione dei codici italiani in Veneto, dopo una lunga transizione legislativa. Quindi, con la tesi di dottorato, titolo che ho conseguito presso le Università di Innsbruck e di Trento nell’ambito del dottorato internazionale “Comunicazione politica dall’antichità al XX secolo”, sono passata ad esaminare alcuni aspetti del Sistema giudiziario del Lombardo-Veneto nella prima metà dell'Ottocento, concentrandomi sull’esercizio della pena di morte. Adesso, cito solo il principale dei filoni di ricerca che ho imbastito, mi sto occupando della storia della criminalità e della giustizia con un focus tutto tirolese, tra la seconda metà del XIX secolo fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.

Quali erano le peculiarità di rilievo nel sistema giudiziario dell'Impero asburgico?

Molto schematicamente: i due modelli processuali dominanti, durante l'Ottocento, afferivano uno al sistema francese (cosiddetto “misto”, ossia costituito da una fase istruttoria ed una accusatoria) e l'altro a quello austriaco (di tipo inquisitorio). Per tutta la prima metà del secolo, il processo penale austriaco era scritto e segreto, e non prevedeva alcun dibattimento pubblico: quest’ultimo venne introdotto brevemente nel 1850, ma già nel 1853 venne approvato un nuovo codice di procedura, che prevedeva sì una fase dibattimentale, ma non pubblica. La pubblicità dei dibattimenti venne definitivamente introdotta solo nel 1873. Fino alla metà del secolo, quindi, chi veniva accusato, nei territori austriaci, era all'oscuro del procedimento giudiziario che veniva imbastito contro di lui, e non poteva neppure ricorrere ad un avvocato difensore: era infatti lo stesso giudice inquirente ad avere anche l’onere della difesa.

Ai tempi dell'Impero asburgico l'imputato conosceva la propria sorte dopo non più di un anno dall’inizio delle indagini

Sembra una situazione simile a quella descritta da Kafka, nel suo “Processo”. Ma così l'imputato non veniva esposto all'arbitrio del Tribunale al quale era sottoposto?

Per quanto possa apparire paradossale, il processo austriaco di tipo inquisitorio – quantomeno alla prova dei casi concreti che ho avuto modo di studiare – era più garantista di quello francese. La procedura penale era rigidamente regolata e gli stessi giudici avevano pochi margini di manovra: le prove che precedevano la condanna (stabilita peraltro, per i casi più gravi, dopo tre gradi di giudizio) dovevano risultare molto più schiaccianti e circostanziate rispetto a quanto accadeva seguendo il modello francese, dove un certo spazio era concesso al cosiddetto “libero convincimento” del giudice. Insomma, era un sistema tutto sommato più garantista.

Si ricorreva alla tortura, quando fu abolita la pena di morte?

La tortura – quella a cui tutti pensiamo quando sentiamo questa parola – fu abolita già in periodo teresiano, nel 1776: si noti però che i codici successivi, pur non ammettendola, prevedevano la possibilità di ricorrere a pene corporali, le cosiddette “esacerbazioni” delle pene detentive, che possono in un certo senso accostarsi a forme di tortura, ossia i colpi di bastone (o di verghe per i minori e le donne) e il marchio. La pena di morte, che era stata abolita per i processi ordinari dal codice penale di Giuseppe II (1787), venne reintrodotta nel 1795 solamente per il crimine di alto tradimento (perché l’anno precedente erano state scoperte delle congiure giacobine) e poi confermata definitivamente dal codice del 1803 (oltre che per l’alto tradimento, per l’omicidio, la falsificazione di banconote e l’incendio doloso). La pena di morte venne accolta anche dal successivo codice penale del 1852 (per tutti i crimini sopra elencati, tranne che per la falsificazione di banconote). In Austria la pena capitale scompare con l'avvento della Repubblica, ma viene reintrodotta nel 1933 dopo il colpo di Stato di Dollfuß. Nel secondo dopoguerra viene mantenuta per il delitto di omicidio, e abolita definitivamente nel 1950 (lo stesso anno ebbe luogo l’ultima esecuzione). Nel 1968 la pena di morte viene abolita anche nel diritto militare.

Noi siamo abituati a considerare la giustizia come un apparato lento, che tende a protrarre i processi per anni, addirittura decenni. Ai tempi dell'Impero asburgico la situazione com'era?

Sulla base dei casi concreti che ho esaminato posso dire che, anche quando il processo attraversava tutti e tre i gradi di giudizio, si procedeva in modo relativamente rapido: in linea di massima l'imputato conosceva la propria sorte dopo non più di un anno dall’inizio delle indagini.

Un'ultima domanda, visto che abbiamo parlato di sistemi giudiziari. Non sarebbe forse possibile vedere anche la storia alla stregua di un Tribunale?

Penso di no, anche se la similitudine potrebbe essere per certi versi centrata. Sia il giudice che lo storico hanno l’obiettivo di ricostruire nel modo più verosimile i fatti, attraverso gli indizi nel primo caso, le fonti nel secondo. Ed è inevitabile – e anche giusto, se vogliamo – che gli storici diano dei giudizi su tali fatti. Anche dire che un sistema penale è più equo, o più garantista di un altro – come ho fatto io prima – significa dare un giudizio. Per non parlare ovviamente degli oggetti di studio che più toccano le nostre corde morali e politiche: pensiamo alla storiografia che si occupa delle dittature novecentesche. Eppure: al contrario di una sentenza definitiva, qualsiasi giudizio storico ha, restando nella metafora, infinite possibilità di revisione e di appello, può essere continuamente rivisto: alla luce sia di nuove ricerche, sia anche di diverse sensibilità, che mutano al mutare della nostra società.