I responsabili (Gli Stati Uniti d'America) di Pietro Gerbore
Dopo il 1913 gli Stati Uniti versavano in una recessione economica, che minacciava di degenerare in grave crisi e dalla quale li liberò la guerra in Europa mediante le ordinazioni di materiale bellico e generi alimentari. L'autodistruzione dell'Europa salvò l'economia americana. Qui fu la ragione dell'aquiescenza del governo di Washington al blocco britannico, illegalmente effettuato nell'Atlantico Occidentale, e della intransigenza aggressiva nei confronti della Germania quando questa alla legalità del blocco volle rispondere con la guerra sottomarina.
Fattori morali e politici influivano sui leaders americani. Parlavano e leggevano soltanto l'inglese, vedevano l'Europa attraverso la stampa britannica: la società inglese era ad essi famigliare, quelle di Berlino e Vienna nebulose. Il dinamismo germanico li inquietava. Poichè ignoravano la storia, avevano idee elementari sul "militarismo tedesco". Mai il presidente Wilson fu neutrale nell'animo. Né lo furono i suoi consiglieri - l'Ambasciatore Page a Londra e il colonnello House - che formavano piani di gloria e grandezza per l'America. Il moralismo calvinista favoriva la presunzione.
Mai Wilson volle diffidare i cittadini americani dal viaggiare su transatlantici britannici. Al contrario egli proclamò che la vita di un cittadino americano ovunque egli fosse, era sacra e inviolabile. Gli Inglesi ne approfittarono per caricare armi e munizioni sotto quella protezione.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra il furore bellico e l'odio verso la Germania superarono colà quelli della Gran Bretagna. Wilson assunse il comando di una crociata per moralizzare l'Europa, cominciando dal Reich e dall'Austria-Ungheria. Un nuovo decalogo uscì dalla sua bocca - o per essere più esatti quattordici comandamenti.
Gli Stati Uniti erano nati da una rivolta contro l'Europa e tanto la loro costituzione quanto la loro prassi di vita erano permanente protesta contro i modelli europei. Un debitore è alla mercè del creditore: aprendo crediti agli Alleati, gli Stati Uniti posero un protettorato su di essi. Istintivamente, senza troppo riflettere o teorizzare, chi conduceva l'America nella guerra sapeva che quella impresa era la prima tappa dell'ascesa verso l'egemonia nel mondo. Quale banchiere dell'alleanza, fu Woodrow Wilson a definire i fini della guerra, enunciare il programma della pace e un nuovo diritto delle genti. La buona fede in lui eguagliava l'ignoranza della storia. Dal suo evangelismo e dalla Realpolitik degli Alleati risultarono gli equivoci del Trattato di Versailles, che fu una pace cartaginese avvolta in formule cristiane.
Nella Conferenza di Parigi il mondo aveva misurato l'ingenuità, la rigidezza dottrinaria, il moralismo semplicista e la mancanza d'esperienza diplomatica del Presidente americano. Quando il trattato fu reso di pubblica ragione, gli uomini ragionevoli subito capirono che né il vinto né la coscienza del mondo potevano accettarlo attesoché esso non era Realpolitik e neppure un nuovo vangelo. Il primo intervento dell'America nelle cose europee aveva lasciato lo scompiglio in esse.
Quando il trattato fu firmato, il Congresso Americano sconfessò il Presidente rifiutando la ratifica. Quindi, dopo aver potentemente contribuito a scrollare l'ordine europeo, gli Stati Uniti declinarono ogni responsabilità. Continuarono per altro a essere il banchiere universale, attesoché la guerra aveva creato una nuova ricchezza in cerca d'impiego.
Tra il 1910 e il 1919 l'incremento del reddito in termini di beni materiali fu del 10%, dal 1920 al 1929 salì a 93%. La produzione di merci e servizi si era raddoppiata. L'America era ormai il creditore universale e il massimo tesaurizzatore d'oro. I debitori non potevano onorare gli impegni che in merci e servizi; invece il Congresso strangolava le importazioni alzando la tariffa doganale e, non contento di reclamare il rimborso dei debiti di guerra, il governo federale reclamava in ogni paese per le esportazioni americane il trattamento della nazione più favorita, minacciando altrimenti l'applicazione dei dazi di rappresaglia.
Negli ultimi anni la tecnica aveva fatto passi da gigante: la produzione per ora-uomo era salita del 40%. Si poneva il problema di come distribuire il nuovo margine di produttività in modo che salvaguardasse il lavoro e la prosperità. Si poteva lasciar calare i prezzi oppure far aumentare i salari. Non accadde né l'una né l'altra cosa: dal 1919 al 1929 i profitti dei businessmen aumentarono dell'80%, quelli delle banche del 150%. L'aumento dei profitti fece rialzare le quotazioni di Borsa; le aziende ne approfittarono per aumentare il capitale, allargare gli impianti e inondare di nuove merci un mercato congestionato mediante i pagamenti a rate. L'America divenne il paese delle cambiali. Tutto ciò causava nuovi rialzi delle quotazioni, che sempre più attiravano squali e miseri pesciolini nei vortici di Wall Street. Verso la fine del 1928 le somme impiegate in operazioni di riporto superavano la massa dei crediti devoluti all'agricoltura, al commercio di esportazione e alle industrie automobilistiche. Uno studio su 90 categorie di azioni rivelava che in due anni si era verificato un aumento globale di prezzo da 17 a 33 miliardi di dollari, vale a dire che la speculazione pagava due dollari per ogni dollaro che il capitalista aveva investito prima della guerra.
Nel settembre 1929 però le quotazioni cominciarono a vacillare e giovedì 24 ottobre fu la Waterloo di Wall Street. Si videro donne svenire e piangere nella pubblica via, la stampa annunciò i primi suicidi.
Oggi noi conosciamo il retroscena del dramma. Andrew Mellon, banchiere già Ministro del Tesoro e quindi Ambasciatore a Londra, aveva venduto a tempo e beneficiato della follia nazionale nella misura di tre miliardi di dollari. Sin dalla primavera del 1927 il Federal Reserve Board, allarmato dalla entità dei capitali investiti nella speculazione, aveva fatto un tentativo per chiudere i rubinetti del credito, ma il presidente Coolidge, indignato per siffatto disfattismo, si era affrettato a dare alla stampa un comunicato che annunciava all'America un avvenire sempre più felice.
Tosto la crisi varcò l'Atlantico. Nel 1929 gli Stati Uniti, con le importazioni e gli investimenti, misero a disposizione dei clienti stranieri 7.400 milioni di dollari. Nel 1932 questo totale si contrasse di 5.000 milioni e si ridusse al 32% del 1929. Al mondo mancava ossigeno.
La crisi divenuta mondiale uccise lo spirito di cooperazione europea e diede l'abbrivio all'egoismo nazionale.
Nel 1930 gli Stati Uniti adottarono una nuova tariffa doganale che colpì a morte l'economia europea e particolarmente quella tedesca e giapponese. In Germania, con la disoccupazione cominciò l'ascesa del partito nazionalsocialista. In Giappone il prezzo della seta diminuì del 50% e i contadini ne furono rovinati: i militari e i nazionalisti proposero nuovi piani di salvataggio.
Il collasso di Wall Street fu l'inizio d'una rivoluzione negli Stati Uniti. Nessuno ebbe idee chiare e il nuovo Presidente Roosevelt fu un dilettante, un improvvisatore, un terrible simplificateur. La speciale mentalità creata dal calvinismo lo predisponeva a credere in una supremazia morale del popolo americano, a interpretare il progresso materiale come un segno della grazia divina e quindi a arrogarsi una missione evangelizzatrice nel mondo. Completa era in lui la mancanza di un patrimonio d'idee, di convinzioni laboriosamente acquisite. Come il suo biografo Schlesinger ha dimostrato, matrice del New Deal fu l'azzardo, il quale operò per mano di uomini avanzanti come sonnambuli in un mondo convulso. Roosvelt come Hitler credette di instaurare un Ordine Nuovo.
Nel 1933 apparve evidente che in America la capacità di produzione superava quella di consumo. Poteva il governo mettere un riparo a tale dislivello? La pianificazione avanzava sotto il nome di coordinamento. La cura del male doveva aver luogo nel quadro della economia nazionale e pertanto il New Deal evolveva in un nazionalismo economico, attenuato per altro sotto l'aspetto doganale. I nazionalisti della National Recevery Administration (N R A) miravano a distaccare l'economia della nazione dalle istituzioni monetarie internazionali, che vietavano la pianificazione domestica, ma d'altra parte non vedevano l'utilità di un inasprimento delle tariffe doganali. L'antico regime era stato nazionalista nel commercio e internazionalista nella finanza; il nuovo sarebbe stato nazionalista nella finanza e internazionalista nel commercio.
Il dramma americano culminava nella posizione del dollaro. Da un secolo l'economia si espandeva con i crediti ai produttori e la nazione si era dicotomizzata: da una parte creditori risoluti a difendere la stabilità del valore dei loro crediti, dall'altra debitori non meno accaniti a scuoterla. Il conflitto era antico e Roosevelt lo arbitrò nella fase più acuta, quando il calo dei prezzi minacciava di far crollare il sistema. Roosevelt completò la sua rivoluzione il 22 ottobre 1933 svalutando il dollaro del 40%. Tutta una classe sociale veniva con ciò colpita nel cuore. Inoltre lo Emergency Relief and Construction Act promise a tutti i disoccupati lavoro retribuito dal Tesoro Federale.
In realtà il New Deal era giunto a un punto morto anche perchè l'autorità giudiziaria, interprete della Costituzione, sembrava decisa a mettere fine agli esperimenti. Mentre questi si frangevano contro la Corte Suprema, nella Casa Bianca, intorno all'enigmatico Presidente, si operava un cambio della guardia: uomini nuovi caldeggiavano nuove dottrine.
Il secondo New Deal fu caratterizzato da un'ancor più grande prodigalità nelle spese e da un giro di vite nella tassazione. Sotto la bandiera di Roosevelt si formava una coalizione demagogica e rivoluzionaria, la quale includeva cattolici, israeliti, negri, donne e repubblicani dissidenti. Questa coalizione lo ricondusse alla Casa Bianca nel 1936 con una autorità quasi illimitata.
In quel tempo l'America era unanimamente risoluta a distanziarsi da una Europa immorale e perversa. L'isolazionismo era un programma. La parola d'ordine era never again, mai più l'America avrebbe dato soldati o dollari a paesi europei in guerra. La legge sulla neutralità votata nel 1935 mirava a legare le mani al Presidente e inpedire le situazioni degli anni 1914-1916.
Tra la guerra di Etiopia (1936) e la crisi cecoslovacca del 1939 l'atteggiamento del Presidente e il clima della nazione mutarono considerevolmente. Roosevelt fu sempre meno neutrale e trovò un appoggio nei mezzi di informazione. Gli Israeliti in America ancora non superavano il mezzo milione, ma controllavano due mezzi potenti di propaganda: il cinematografo e i magazzini generali, la cui pubblicità era il cespite più importante della stampa. Pertanto nessun quotidiano o periodico poteva permettersi l'imparzialità nei problemi dell'Europa Centrale, mentre il cinematografo diffondeva l'orrore della barbarie teutonica. Il "neutralismo" quindi non era neutralità delle anime.
Nella prima guerra mondiale Roosevelt era stato violentemente germanofobo. Poco o nulla sapeva dei problemi europei: la storia analitica lo annoiava. Dopo il 1936 la sua situazione personale si fece complessa e difficile. Nel suo entourage prevalsero i radicali, gli utopisti. Numerosi furono gli Israeliti. Il New Deal perdeva lo slancio. Il debito pubblico saliva. Gli esperimenti erano costati più della partecipazione alla prima guerra mondiale. La svalutazione del dollaro aveva falciato metà dei patrimoni investiti in valori stabili. Sul paese ancora gravavano la disoccupazione e i dislivelli fra salari e prezzi. Gli avversari, i repubblicani conservatori e tutte le vittime della svalutazione del dollaro apertamente protestavano e parlavano di tradurre Roosevelt davanti all'Alta Corte di Giustizia. Le complicazioni europee lo salvarono. (continua domani)